Venerdì 19 Aprile 2024

Harry Belafonte è morto. Addio al mito della musica e pioniere dei diritti civili negli Usa

Aveva 96 anni. Portò alla ribalta la musica caraibica con canzoni come Day-O (The Banana Boat Song) e Jamaica Farewell

Harry Belafonte

Harry Belafonte

Roma, 25 aprile 2023 – Day-o: Harry Belafonte, che ha preso d'assalto le classifiche pop e abbattuto le barriere razziali negli anni '50 con il suo personalissimo marchio di musica caraibica, e che è diventato una forza importante nel movimento per i diritti civili, è morto martedì nella sua casa nell'Upper West Side di Manhattan. Aveva 96 anni. A dare la notizia il “New York Times”, che ha pubblicato ieri un intensissimo ritratto, che ce lo racconta come segue, ricostruendo la vita di Belafonte a partire dalle difficili origini: in un momento in cui la segregazione era ancora diffusa e gli attori neri - non già le fittizie "black faces" - erano ancora una rarità su schermi grandi e piccoli, l'ascesa di Belafonte ai vertici dello spettacolo è stata storica. Non è stato il primo uomo di spettacolo nero a trascendere i confini razziali; Louis Armstrong, Ella Fitzgerald e altri avevano raggiunto la celebrità prima di lui. Ma nessuno aveva fatto tanto scalpore come lui, per anni nessuno nella musica, bianco o nero, era stato più grande. Per anni nessuna star nera si è schierata nella battaglia antirazzista come lui,

Non solo Banana Boat

Nato ad Harlem da immigrati dell'India occidentale, ha lanciato negli Usa - da pioniere - la moda della musica caraibica con dischi di successo come "Day-O (The Banana Boat Song)" e "Jamaica Farewell". Il suo album "Calypso", che conteneva entrambe le canzoni, raggiunse la vetta della classifica degli album di Billboard poco dopo la sua uscita nel 1956 e vi rimase per 31 settimane. Poco prima di Elvis Presley, il primo album di un singolo artista a vendere più di un milione di copie. Ha avuto altrettanto successo nei concerti: bello e carismatico, ha incantato il pubblico attraversando registri allegri e drammatici, con un repertorio che comprendeva tradizioni popolari di tutto il mondo: calypso solari come "Matilda", canzoni di lavoro come "Lead Man Holler", teneri ballate come "Scarlet Ribbons". Grazie al successo come cantante, Hollywood lo ha subito adottato: nel 1959 era l'attore nero più pagato della storia, il primo attore nero a ottenere successo come protagonista (anche se poi al trionfo da superdivo arrivò non lui ma il suo amico/rivale Sidney Poitier). D'altronde fare film non è mai stata la priorità di Belafonte, e dopo un po' nemmeno fare musica. Ha continuato a esibirsi fino agli ultimi anni, e ad apparire anche in alcuni film, ma la sua missione principale dalla fine degli anni '50 è stata quella della lotta per i diritti civili.

L'amicizia con Martin Luther King

All'inizio della sua carriera, fece amicizia con Martin Luther King e ne divenne non solo amico per tutta la vita, ma anche ardente sostenitore nella battaglia per la ricerca dell'uguaglianza razziale. Belafonte investì gran parte dei primi guadagni per aiutare a creare il Comitato di coordinamento nonviolento degli studenti ed è stato uno dei principali benefattori per quell'organizzazione e per la Southern Christian Leadership Conference di King. Ha pagato di tasca sua per far uscire King e altri attivisti dalla prigione, ha dato soldi alla famiglia dopo l'assassinio del leader. E in un'intervista al “Washington Post” pochi mesi dopo la morte di King, Belafonte arrivò a lamentarsi per la frustrazione del fatto che sebbene cantasse musica con "radici nella cultura nera dei neri americani, dell'Africa e delle Indie occidentali", la maggior parte dei suoi fan erano bianchi.

Col paradosso di essere una star ammirata anche da gran parte del pubblico "wasp", Belafonte ha passato la vita a combattere il razzismo. Il film del 1957 “L'isola nel sole”, che suggeriva una storia d'amore tra il suo personaggio e una donna bianca interpretata da Joan Fontaine, creò scandalo nel sud degli Usa, tanto che la Carolina del Sud chiese di multare i cinema che lo proiettavano. Ad Atlanta per un concerto di beneficenza per la Southern Christian Leadership Conference nel 1962, gli fu rifiutato due volte il servizio nello stesso ristorante. Le apparizioni televisive con cantanti bianche - Petula Clark nel 1968, Julie Andrews nel 1969 - fecero arrabbiare molti spettatori e gli causarono la perdita degli sponsor. Al contempo, attirava critiche dai neri, inclusa l'insinuazione all'inizio della sua carriera che doveva il suo successo alla "chiarezza" della sua pelle (suo nonno paterno e sua nonna materna erano bianchi). Quando divorziò dalla moglie nel 1957 e sposò Julie Robinson, che era l'unica bianca del corpo di ballo di Katherine Dunham, l'"Amsterdam News" scrisse: "Molti neri si chiedono perché un uomo che ha sventolato la bandiera della giustizia per la sua razza dovrebbe scegliere una moglie bianca".

La carriera artistica

Harold George Bellanfanti Jr. era nato il 1 marzo 1927 ad Harlem. Il padre, nato in Martinica (e poi cambiato il cognome), lavorava saltuariamente come cuoco su navi mercantili ed era spesso in trasferta; sua madre, Melvine (Love) Bellanfanti, nata in Giamaica, era una domestica. Abbandonata la George Washington High School nel 1944 si arruolò nella Marina, dove fu incaricato di caricare munizioni a bordo delle navi. I compagni di nave neri gli fecero conoscere le opere di W.E.B. Du Bois e altri autori afroamericani , esortandolo a studiare la storia dei neri. Arrivato a New York dopo il suo congedo, Belafonte si interessò alla recitazione e si iscrisse al G.I. Bill al Dramatic Workshop di Erwin Piscator, suoi compagni di studi Marlon Brando e Tony Curtis. Salì sul palco per la prima volta all'American Negro Theatre, dove lavorava come macchinista, e dove ha iniziato la sua amicizia - durata poi per tutta la vita - col collega debuttante Sidney Poitier. Il successo di Harry arriva però - dal '49 - non come attore teatrale, ma come cantante. Ed è a questo punto che suscita l'interesse del produttore e regista di Hollywood Otto Preminger, che lo scrittura nella versione cinematografica del 1954 di "Carmen Jones", un aggiornamento "nero" della Carmen di Bizet; nel '59 Preminger gli offre il ruolo di protagonista in "Porgy and Bess", ma lui rifiuta per "i suoi stereotipi razziali negativi". Passa in tv, e il suo speciale "Tonight With Belafonte" del 1960 vince l'Emmy (il primo per un artista nero) ma un altro show tv del '68, in cui Petula Clark gli tocca un braccio, viene bloccato per l'indignazione degli sponsor che avevano già chiesto che non ci fossero duetto tra lui e artisti bianchi. Belafonte torna quindi al cinema, come produttore e co-protagonista, con Zero Mostel, di “The Angel Levine” (L'angelo Levine, 1970), con un taglio sociopolitico: far lavorare su quel set 15 apprendisti neri e ispanici. Seguono poche altre apparizioni fino al 1992, quando interpreta se stesso ne "I protagonisti" di Robert Altman. Altman lo richiamerà anche (nella parte di un gangster) in "Kansas City" (1996). Il suo ultimo ruolo cinematografico è stato in "BlacKkKlansman" di Spike Lee nel 2018.

Attivismo politico

Negli anni '80 partecipa alla realizzazione del Live Aid e alla registrazione di "We Are the World", per raccogliere fondi per combattere la carestia in Africa. Nel 1986, incoraggiato da alcuni leader del Partito Democratico dello Stato di New York, prende in considerazione l'idea di candidarsi al Senato degli Stati Uniti. Nel 1987 ha sostituito Danny Kaye come ambasciatore di buona volontà dell'Unicef. Nel 2006 definì Bush "il più grande terrorista del mondo". Stessa schiettezza quando, nelle elezioni del sindaco di New York del 2013 in cui appoggiava il candidato democratico Bill de Blasio, definì i fratelli Koch, i ricchi industriali noti per il loro sostegno a cause conservatrici, “suprematisti bianchi”, paragonandoli al Ku Klux Klan. Nel 2016 ha definito Trump "incapace e immaturo"; in un intervento su "The Times" dichiarò: "Trump chiede a noi elettori afroamericani cosa abbiamo da perderei, e noi dobbiamo rispondere: solo il sogno, solo tutto".

I premi e gli omaggi

Tra le molte onorificenze che ha ricevuto nei suoi ultimi anni il Kennedy Center Honor nel 1989, la National Medal of Arts nel 1994 e un Grammy alla carriera nel 2000. Nel 2011 è stato oggetto di un film documentario, "Sing Your Song", e ha pubblicato la sua autobiografia, "My Song". Nel 2014, l'Academy of Motion Picture Arts and Sciences gli ha conferito il Jean Hersholt Humanitarian Award in riconoscimento della sua lotta per i diritti civili e per altre cause. L'onore, ha detto al “Times”, gli ha dato "un forte senso di ricompensa". Ripensando alla sua vita e alla sua carriera, Belafonte era orgoglioso ma tutt'altro che compiacente. "Riguardo alla mia vita, non ho lamentele", ha scritto nella sua autobiografia. "Eppure i problemi affrontati dalla maggior parte degli americani di colore sembrano terribili e radicati come lo erano mezzo secolo fa".

è arrivato su WhatsApp

Per ricevere le notizie selezionate dalla redazione in modo semplice e sicuro