Hannah Arendt pubblicò Noi rifugiati nel 1943 su una rivista dell’ebraismo statunitense, Menorah Journal. La filosofa allieva di Martin Heidegger e destinata a diventare una delle pensatrici più influenti del ’900, era arrivata negli Stati Uniti da un paio d’anni, dopo la fuga dalla Germania, l’internamento in Francia e un’evasione più che rocambolesca. La guerra in Europa era nel suo pieno e ancora incerto svolgimento e la persecuzione degli ebrei non ancora còlta nella sua pienezza: il saggio, sul momento, fu percepito come una denuncia e come un documento, la testimonianza forte ma anche ironica di un’intellettuale apolide, costretta a fuggire dalla Germania nazista e poi dalla Francia occupata.
Ma Noi rifugiati, col tempo, si è rivelato un testo profetico: indicava la perdita di umanità – un’umanità cioè non riconosciuta nei luoghi di approdo – dei senza patria, degli apolidi, dei rifugiati appunto, destinati a crescere di numero a dismisura, anche dopo la guerra, anche ai giorni nostri, un’epoca segnata da migrazioni di massa e respingimenti e rifiuti altrettanto massivi.
Come nota Donatella Di Cesare nel saggio che accompagna il testo di Arendt, la filosofa tedesca coglie nella sua stessa vicenda un fenomeno politico generale: l’emergere dei “superflui”. Scrive Arendt: "La storia contemporanea ha creato una nuova specie di esseri umani – quelli che vengono messi nei campi di concentramento dai loro nemici e nei campi di internamento dai loro amici". Parole che a ottant’anni di distanza suonano sinistramente attuali.
Lorenzo Guadagnucci
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