Mercoledì 24 Aprile 2024

Guido Rossa, l’alpinista-operaio lasciato solo

La storia del sindacalista assassinato a Genova dalle Br nel 1979: grande scalatore, ex parà, uomo inquieto e in fondo incompreso

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di Lorenzo Guadagnucci

Un paracadutista militare; un alpinista ardito e fantasioso, fra i migliori della sua generazione; un uomo segnato da dolori insostenibili, in testa la morte accidentale di un figlioletto di due anni; un uomo profondamente solo. Oppure, all’opposto: un operaio modello, un sindacalista coraggioso, un cittadino e uomo di sinistra di profonda lealtà istituzionale, fino a pagare con la vita la sua scelta democratica. Due profili in apparenza inconciliabili, ma stiamo parlando della stessa persona: Guido Rossa, l’operaio dell’Italsider di Genova che il 24 gennaio 1979 fu ucciso prima dell’alba, sotto casa mentre andava al lavoro, da altri operai, uomini delle Brigate Rosse, in quanto delatore. Rossa aveva denunciato un collega, Francesco Berardi, accusandolo di avere portato in fabbrica un documento delle Br; Berardi era stato arrestato, Rossa aveva confermato le accuse davanti al giudice.

Dopo la morte, l’operaio iscritto al Pci, sindacalista della Fiom-Cgil, è entrato (giustamente) nel pantheon dei piccoli-grandi eroi della lotta al terrorismo e attorno alla sua figura è stato costruito un ritratto a tinta unita, un’agiografia in fondo comprensibile, vista l’importanza del suo gesto e la tragica fine. Ma Guido Rossa è un uomo che ha attraversato la storia della repubblica e della classe operaia in un modo del tutto originale. E che ha vissuto gli ultimi mesi della sua vita, quelli successivi alla denuncia di Berardi, in una condizione di drammatica solitudine.

Rossa non era il solo testimone della condotta di Berardi, il “postino delle Br“ all’Italsider, ma come delegato sindacale di reparto aveva firmato di persona – solo lui – la denuncia all’autorità giudiziaria, e in totale solitudine, anche fisica, aveva ribadito l’accusa in tribunale. Perché la denuncia non fu firmata anche da altri? Perché non fu presentata direttamente dal sindacato? E perché Rossa, dopo la denuncia, non fu messo sotto protezione, né dallo stato né dal Pci o dalla Fiom? Forse superficialità, forse sottovalutazione del pericolo, ma certamente né i compagni di lavoro né il sindacato o il partito compresero fino in fondo Guido Rossa e le sue scelte, se non dopo la sua morte.

Sergio Luzzatto, che ha dedicato a Rossa un accorato ritratto a partire dall’archivio familiare e con molti dettagli inediti (Giù in mezzo agli uomini. Vita e morte di Guido Rossa, Einaudi), scrive che "gli amici più veri – i compagni di cordata – cercarono in ogni modo di allontanarlo da Cornigliano, da Genova, dal pericolo imminente". Ma lui non ne volle sapere. Eppure era ben conscio d’essere entrato nel mirino delle Br. Omi Pertusio, vedova di Piero Villaggio, fratello gemello di Paolo e amico di Guido, riferisce a Luzzatto che alcuni giorni prima d’essere ucciso Rossa era andato a trovare Piero a Pisa, dove l’amico professore insegnava: "In tale occasione gli aveva detto che con certezza sarebbe stato ucciso".

Al funerale di Rossa – un’enorme manifestazione sotto la pioggia in una Genova sconvolta – il segretario della Cgil Luciano Lama fece un discorso di sorprendente autocritica: "Riconosciamo sinceramente che se (...) noi tutti, a cominciare dagli operai dell’Italsider, fossimo stati un solo grande schieramento contro il nemico della democrazia, forse la vita di questo nostro compagno non sarebbe stata spezzata". "Forse – dice in piazza un operaio quel giorno – non eravamo tutti completamente d’accordo con Rossa, col fatto... È stata un’incomprensione nostra". L’equivoco della solidarietà operaia – estesa fino ai brigatisti – e del conseguente giudizio di delazione a fronte di una denuncia come quella di Rossa, si sarebbe sciolto, nella classe operaia genovese, solo con la tragica fine del sindacalista.

Gli “amici più veri” di Rossa erano dunque i compagni di scalata. Guido si era costruito una seconda vita da alpinista: era lì che si trovava più a suo agio, potendo esprimere il suo carattere forte, la sua indole irriverente, le sue inclinazioni – addirittura– da attaccabrighe, attitudini assai lontante dal ritratto che ci è stato trasmesso post mortem. Il Rossa alpinista è attratto dalle sfide più ardite, come scalare vette inespugnate e aprire nuove vie di ascesa, e in calce alle fotografie scattate in montagna trascrive frasi “superomistiche” di Nietzsche. È un lato dell’uomo che non verrà mai meno, nonostante l’assiduità in montagna col tempo si riduca.

Un momento di cesura, o almeno di svolta, in verità ci fu: coincide con la spedizione sull’Himalaya del 1963. È un’impresa – successiva alla perdita del figlio Fabio, ucciso in casa da una fuga di gas – che impegna Rossa con altri sei compagni. Finirà in tragedia, con la morte di due di loro, Giorgio Rossi e Cesare Volante. Il viaggio in Asia è anche l’occasione che fa scoprire a Rossa le profonde ingiustizie del mondo: è colpito dalle misere condizioni di vita delle persone che incontra, capisce anche grazie a quell’esperienza – come scriverà nel 1970 a Ottavio Bastrenta, l’amico notaio e compagno di scalate rimasto in Italia – di "dover scendere giù in mezzo agli uomini a lottare con loro", abbandonando le visioni nietzschiane di un tempo.

È così che nasce la scelta di impegnarsi in fabbrica, nel sindacato, nel partito. Ma il destino di Guido Rossa, l’operaio-alpinista sceso dalle nevi del Nepal ai torni e alle ciminiere di Cornigliano, era di non essere capito fino in fondo.

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