Roma, 29 novembre 2024 – Secondo gli storici è stato il più grande campo di concentramento allestito in Italia dal fascismo e vi morirono di stenti centinaia di prigionieri: si stima che vi fu un tasso di mortalità simile a quello dei Lager nazisti non di sterminio. Siamo a Gonars, nella bassa friulana, e si potrebbe pensare, arrivando, di trovare tutte le indicazioni del caso, magari un museo, materiali d’informazione dettagliati. Non è così. Ai resti del campo si può arrivare facilmente, ma solo usando Google Maps, che indica il “Campo di concentramento” sostituendosi ai cartelli che non ci sono.
Non c’è molto da vedere, in verità: una parte del muro perimetrale, seminascosto dall’erba; un sobrio monumento composto da quattro lastre in pietra verticali, ciascuna dotata di un mosaico che “illustra” la vita – la non-vita – che si faceva nel campo; i pennoni sui quali è possibile issare le bandiere nei giorni deputati alle commemorazioni. Un cartello metallico plurilingue, mangiato dalle intemperie, offre sommarie informazioni: “Qui si trovava la sezione B del campo di concentramento fascista per internati civili jugoslavi attivo dalla primavera del 1942 all’8 settembre 1943. Diverse migliaia di persone – donne e uomini, giovani, anziani e bambini – furono internati in questo campo e oltre 500 vi morirono per fame, stenti e malattie. I loro resti si trovano ora in un Sacrario memoriale nel cimitero di Gonars”.
Il campo di Gonars, dunque, è a tutti gli effetti un “luogo della memoria”, un sito che dovrebbe ricordarci che cosa fu davvero il fascismo e a quale livello di crudeltà e violenza giunse sul confine orientale e nelle zone di occupazione, ma siamo obbligati a parlare, piuttosto, di un “luogo della dimenticanza” o della “cattiva coscienza”, tanto poco è nota e presente nel discorso pubblico, anche nella retorica sulla memoria collettiva, la storia dei “campi del duce”, la pratica dell’internamento fino allo “sterminio” per fame, se così vogliamo chiamare la sorte che fu inflitta in particolare ai detenuti di Gonars e di Arbe, l’altro terribile campo “per slavi” allestito nell’isola dalmata. Il Sacrario memoriale comunque esiste, è all’interno del cimitero di Gonars (Comune oggi di 4500 abitanti) e fu realizzato nel 1973 non già dalla nostra “repubblica democratica fondata sull’antifascismo”, ma dalla Jugoslavia di Tito, che fu almeno autorizzata – questo sì – ad affidare allo scultore Miograd Zivkovic la realizzazione di un’opera monumentale che oggi “presidia” il cimitero e ricorda l’orrore vissuto da migliaia di persone, prelevate per lo più nella provincia di Lubiana, assegnata all’Italia quando si trattò di spartirsi fra alleati (l’Italia fascista e la Germania nazista) le spoglie dell’allora Regno dei serbi, croati e sloveni.
Marco Sicuro, storico locale e insegnante, autore di una serie di interviste ad anziani di Gonars attorno alla “memoria del campo” (confluite nel volume Memorie della nostra gente, 2008), dice che il monumento ha una forte capacità espressiva: “Sembra un fiore, ma è d’acciaio, e i petali potrebbero stritolarti”. È così: le possenti strutture in acciaio, lucide e luminose sotto il sole, hanno qualcosa di minaccioso: messe a semicerchio, sembrano abbozzare un abbraccio che non lascerebbe scampo. Fra i visitatori del cimitero oggi c’è Glenda: non è qui per il Sacrario, ma per “cercare un po’ di carica” sulla tomba dei nonni, Assunta e Tullio, protagonisti di una storia commovente. “Si conobbero nella prigionia in Germania. Lei era un’emigrata, e fu presa e mandata a lavorare in una fabbrica di bombe a mano in Alta Slesia. Sapeva il tedesco, le fecero fare l’interprete e così poté aiutare tanti deportati. Lì conobbe mio nonno, un militare fatto prigioniero nei Balcani, si innamorarono, e alla fine della guerra si sposarono: lui era altissimo, ma pesava nemmeno 50 chili”. Assunta e Tullio hanno poi vissuto a Gonars e chissà che avranno pensato, scoprendo di abitare vicino ai resti di un altro campo di concentramento.
L’allestimento del campo di Gonars fu parte di una politica che oggi chiameremmo di pulizia etnica: vi finirono sia oppositori politici, sia persone comuni – intere famiglie – deportate dai territori occupati oltreconfine; fu gestito con la spietatezza che si riserva alle “non persone”, a un’umanità considerata “meno umana” della propria. In un tempo nel quale risorgono il razzismo, i muri, la disumanizzazione dell’altro e del nemico, forse luoghi come il campo di Gonars dovrebbero far parte della memoria pubblica e non essere nascosti, come invece avviene.