Mercoledì 24 Aprile 2024

Goldin, la fotografa della generazione perduta

Il Leone d’Oro al documentario “All the Beauty“ celebra l’artista e attivista americana che ha raccontato il lato oscuro degli anni ’80

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di Chiara Di Clemente

“Sarò il tuo specchio“, I’ll be your mirror: s’intitolava così la prima importante personale che il Whitney Museum di New York dedicò alla fotografa Nan Goldin, nel 1996. Stesso titolo della canzone scritta da Lou Reed che Nico aveva inciso nel ’67 con i Velvet Underground: "Sarò il tuo specchio, rifletterò quello che sei: quando credi che la notte abbia invaso la tua mente, quando credi di essere confusa e inaridita, lascia che ti mostri che sei cieca, abbassa la tue mani perché ti veda. Lascia che io sia i tuoi occhi, una mano nel tuo buio, così che tu non abbia paura. Sarò il tuo specchio".

Nan Goldin – la cui arte e il cui attivismo sono al centro del documentario di Laura Poitras All the Beauty and the Bloodshed vincitore del Leone d’Oro della 79ª Mostra di Venezia – è stata con le sue foto anni ’80-’90 proprio questo: lo specchio che ha restituito bellezza agli sguardi, ai volti, ai corpi di persone con la mente invasa dalla notte, con l’evidente percezione di un sé dal nucleo confuso o inaridito, comunque infranto. Diverso. Ai margini del sogno americano, ai margini della vita e del futuro.

All’epoca della personale al Whitney Nan aveva 43 anni, e già dieci anni prima aveva ideato quella che resta ancora oggi la sua opera più più importante: The Ballad of Sexual Dependency (1985), la ballata della dipendenza sessuale, slide-show di 700 immagini scattate tra il 1979 e il 1985, protagonista la sua “famiglia d’elezione“ newyorkese con cui viveva nel quartiere di Bowery, amici, amanti e se stessa che si divertono con spudorato abbandono nello squallore bohémien del Lower East Side. Sono foto di un’immediatezza a volte straziante: primi piani di ragazzi (etero, gay) che si baciano, corpi di ragazzi che fanno il bagno in vasca, si amano o si fanno di eroina; letti sfatti, feste in casa, drag al trucco e in taxi, amiche incinta o con i figli, il famoso autoritratto di sé “un mese dopo essere stata picchiata” (Diapositiva 5), rossetto rosso brillante e occhi pieni di lividi e sangue. È la ballata di una giovane generazione in cerca di una felicità impossibile, marchiata dall’ineluttabilità di una fine precoce. "Tutti loro sono già morti – racconta ora Nan – manca una generazione del 20° secolo", ed è quella lì, portata via dalla droga e dall’Aids. Ibridi tra lo studio artistico e l’immediatezza dell’istantanea, tra dettagli intimiprivati e narrazione documentaria, le sue foto però restano. Anzi: pervadono la nostra quotidianità, poiché di quella stessa estetica che “cristallizzava“ la furia muta di una felicità impossibile, tra rare sfocature e impietose nettezze, sono popolati oggi i servizi chic di moda come i film di Wong Kar Wai, Gaspar Noé, persino l’ultimo Guadagnino, e pure mille “autobiografie“ social di Instagram.

Della Goldin, il documentario All the Beauty racconta in parallelo la vita artistica e la battaglia intrapresa dal 2014 con un gruppo di attivisti contro il mecenatismo nei grandi musei (Met, Guggenheim, Victoria&Albert, Louvre) effettuato dalla famiglia Sackler, padrona della Purdue Pharma produttrice dell’OxyContin, oppioide che negli Usa ha causato centinaia di migliaia di morti. Battaglia vinta: il Louvre lo fece già nel 2019 e nel 2021 anche il Met ha deciso di rimuovere le targhe celebrative della famiglia da sette spazi espositivi, inclusa la Sackler Wing (col Tempio di Dendur); nel frattempo sono nate campagne simili a quella della Goldin – proteste davanti ai musei, flash mob all’interno – contro la cosiddetta “filantropia tossica“, vedi gli attacchi di Michael Rakowitz al MoMa.

Dell’OxyContin Nan Goldin è stata dipendente, così come era dipendente dalle droghe ai tempi della Ballad. Nata a Washington nel ’53, viene segnata dal suicidio della sorella maggiore quando ha 11 anni e inizia a fumare marijuana: viene espulsa da scuola, a 14 anni abbandona casa per andare a vivere nelle comuni e famiglie affidatarie. Studia fotografia a Boston e lì – folgorata dall’arte di Larry Clark – realizza gli scatti del suo primo “diario pubblico”, riprendendo le sue coinquiline, due drag queen, a casa e nei bar gay. Poi, nel ’78, l’arrivo a New York e l’immersione nella sottocultura gay post-Stonewall e in quella della droga pesante di Bowery. Ne è vittima e poeta, la sua esistenza aderisce all’arte: alla fine della Ballata, compaiono lapidi, cimiteri, i graffiti di due scheletri che fanno l’amore. È quello l’ultimo specchio.

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