Martedì 23 Aprile 2024

Golden Globes, trionfa l’incubo americano

Edizione sottotono, Sorrentino a mani vuote: vincono i cowboy maligni e ambigui della Campion e le lotte di potere di “Succession“

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di Chiara Di Clemente

Il morbo che l’America cerca di combattere senza riuscire a sconfiggere non è la pandemia, ma un male atavico: i figli lo individuano nei propri padri, nel loro esercizio di una tirannia economica e morale tanto pervasivo quanto crudele e senza scrupoli, ma dalla lotta che intraprendono per provare a distruggerli – ad annientarli, o almeno a cambiarne le regole – escono perdenti e pure irrimediabilmente contaminati. Accade nel film Il potere del cane, ambientato al tramonto del Vecchio West, quando ai cavalli si vanno sostituendo le automobili: il male è il seme della violenza che porta in sé il cowboy Benedict Cumberbatch, ereditato dal suo mentore e pronto a sbocciare – inaspettatamente, con sottile eppure ancor più dirompente e implacabile forza – nel giovane nipote acquisito. E accade nella terza stagione della serie tv Succession, ambientata nella New York di oggi, nei palazzi dell’impero mediatico Waystar: il male è sempre lì tra le mani dell’anziano capofamiglia uso a venire a patti con ogni forma di corruzione e a considerare al suo personale servizio l’umanità tutta, dal Presidente Usa ai quattro figli; i quattro figli vivono in un flusso di eventi e coscienza in cui la lotta sistematica all’uomo e al male che incarna è costantemente sconfitta, minata dall’alternanza repentina con cambi di guardia, accondiscendenze e rese dovute ora alle convenienze economiche ora – purtroppo o per fortuna i figli son ben più fragili dei padri – alle incertezze sentimentali scatenate dai legami di sangue.

È il racconto di questo male ad aver trionfato ai Golden Globes 2022, dove Sorrentino è stato battuto dal giapponese Drive My Car. Nell’edizione più sottotono della storia, orfana del glamour della diretta tv da Los Angeles cancellata a causa delle polemiche che hanno investito l’associazione della stampa estera a Hollywood (scandali finanziari, mancanza di quote black) i maggiori premi, tristemente comunicati via Twitter, sono andati al film (Netflix) di Jane Campion, 67 anni, già vincitore a Venezia del Leone d’Argento per la regia, e alla serie tv (Hbo, in Italia su Sky) firmata Jesse Armstrong, già vincitrice ai Globes 2020. Il potere del cane si è imposto nelle categorie migliore pellicola drammatica, migliore regista (la terza volta nella storia dei Globes per una donna: prima di lei Chloé Zhao l’anno scorso con Nomadland e Barbra Streisand nell’84 con Yentl) e migliore attore non protagonista, il venticinquenne australiano Kodi Smit-McPhee, nel film l’inquietante delicatissimo manipolatore ragazzino che ha la meglio sul “cattivo“ – rude mandriano però laureato in lettere antiche, modi misogini e iper-virili che celano la combattuta omosessualità – interpretato da Cumberbatch. Se questi premi valgono ancora come anticamera degli Oscar lo vedremo il 27 marzo: fatto sta che tra candidature e vittorie il film della Campion si sta ritagliando sempre più un posto di primo piano nell’anno hollywoodiano, ed è bello per un’opera che – partendo dal romanzo del ’67 di Thomas Savage – porta in scena le profonde ambiguità capaci di trasformare il grande sogno americano in un immenso incubo senza fondo facendole riverberare in ogni personaggio e in ogni situazione attraverso pochissime parole, imponenti paesaggi selvaggi (il Montana reinventato in Nuova Zelanda), gesti, sguardi e musiche sublimi (firmate Jonny Greenwood), immersi nei chiaroscuri dell’inconscio.

Succession si è portato a casa i Globes per serie tv drammatica, attore protagonista e attrice non protagonista: lei è la sempre più rampante Sarah Snook, rossa e burrosa 34enne australiana, l’irresistibile “Shiv” che nella serie maschera da arguzia la goffaggine, e vive in perenne inutile muta richiesta dell’approvazione paterna. Lui è Jeremy Strong, nella serie Kendall, il figlio bipolare del tycoon-Re Lear che da vittima sacrificale del padre prova a trasformarsi nel suo disarmato ma eroico antagonista. Ritratto recentemente sulle pagine del New Yorker come un attore quarantenne tardivamente approdato al successo calatosi troppo, e senza ironia, nella dimensione dostoevskiana del proprio personaggio, Strong con questo Globe cavalca da superstar l’onda dell’opinione pubblica (e dei colleghi divi) che negli Usa si è alzata – dopo l’articolo – in difesa della sua performance. Che è grandiosa, e basta.

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