
È l’altro Vietnam. Non quello degli americani, ma il tritacarne in cui hanno combattuto migliaia di italiani (e non solo) tra il 1946 e il 1954 con l’uniforme della Legione straniera (uno speciale corpo militare composto prevalentemente da stranieri istituto nel 1831 dal re di Francia Luigi Filippo d’Orléans) durante la guerra d’Indocina, che vide i francesi scontrarsi con l’Esercito Popolare di Liberazione di Ho Chi Minh per mantenere il dominio della loro colonia (il Vietnam lo era sin dal XIX secolo e costituiva, assieme a Laos e Cambogia, l’Unione Indocinese) e che si concluse con la rovinosa sconfitta francese a Dien Bien Phu.
Stando ai numeri, tra altro approssimativi, 7mila italiani si arruolarono nella Legione straniera. Ne morirono 526 sul “campo dell’onore” (ma probabilmente i caduti furono molti di più), senza contare i prigionieri, i feriti, e i dispersi. Ma se del Vietnam “americano” sappiamo molto, quello “francese” “italiano” sono stati condannati alla damnatio memoriae. Soprattutto nel Belpaese. A ricostruirla ci ha però pensato Luca Fregona in Soldati di sventura e in Laggiù dove si muore. Il Vietnam dei giovani italiani con la Legione straniera, entrambi pubblicati da Athesia.
"Ho messo insieme una decina di storie – racconta Fregona – e alcune di queste sono incredibili, ma soprattutto mi hanno permesso di restituire la memoria di alcuni soldati italiani alle loro famiglie".
Come nasce la sua ricerca?
"Nasce più o meno una ventina d’anni fa, quando ho conosciuto l’ex legionario Beniamino Leoni, uno dei tanti migranti economici che nel secondo dopoguerra vedevano nella Francia il paradiso e invece si ritrovarono a combattere nella Legione straniera. Questa era infatti la zattera di salvataggio di chi si trovava in difficoltà, veniva arrestato o aveva un passato da nascondere. Era un mondo complesso, c’era di tutto, anche fascisti e, nel caso dei tedeschi, nazisti reclutati direttamente dai campi di prigionia. Ma molti erano soprattutto ragazzi spesso provenienti da famiglie povere in un’Italia che aveva ancora tante ferite. In molti casi, venivano adescati dai reclutatori".
Figure, queste, piuttosto ambigue…
"Erano uomini senza scrupoli al soldo dei francesi, che avevano bisogno di uomini. Si piazzavano davanti alle fabbriche, per strada, dappertutto. Erano pagati quando veniva portato a casa un contratto. Ma chi firmava spesso non sapeva che andare nella Legione voleva dire morte quasi certa. In Algeria e, soprattutto, nell’inferno del Vietnam".
Perché di questa storia in Italia si parla così poco?
"Forse perché all’epoca non c’era una copertura mediatica paragonabile a quella del Vietnam “americano”. Però sui giornali se ne parlava. E ci sono centinaia di lettere di genitori disperati che chiedevano al ministero degli Esteri italiano o a quello della Guerra francese di liberare i loro figli".
A quale delle storie che ha raccontato è legato di più?
"Sono legato tutte. Per esempio a quella dello spezzino Giorgio Cargioli. Nel ’53 arrivò in Francia giovanissimo e da clandestino, attraversando il confine di Ventimiglia e i sentieri sui quali camminano i migranti di oggi. Arrestato poche ore dopo, venne costretto ad arruolarsi nella Legione per evitare la galera. Ha vissuto l’inferno del Delta del Fiume Rosso, ma è tornato a casa. E lo ha raccontato a me".
Giuseppe Di Matteo
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