
Fatima Hassouna, uccisa a Gaza mercoledì, nel documentario dell’iraniana Sepideh Farsi
Roma, 19 aprile 2025 – Fatima Hassouna aveva 25 anni. È stata uccisa, insieme a dieci membri della sua famiglia, in un attacco aereo israeliano a nord di Gaza il 16 aprile. Solo poche ore prima aveva saputo che il film di cui era protagonista sarebbe andato a Cannes, nella sezione indipendente Acid. Put Your Soul on Your Hand and Walk, della regista iraniana Sepideh Farsi, racconta infatti la storia di resistenza di Fatima e il suo ruolo di testimonianza, come artista e fotoreporter palestinese, dal 7 ottobre 2023, e ancora prima. La sua morte si aggiunge a quella di oltre duecento giornalisti testimoni delle violenze a Gaza da parte dell’esercito israeliano, a meno di un mese da un debutto sulla Croisette che avrebbe riportato l’attenzione e lo sguardo sulle azioni dell’Idf nella Striscia.
Quella di Fatima Hassouna è perciò una morte che fa particolare rumore, soprattutto dopo le immagini che lo scorso 24 marzo hanno fatto il giro del mondo, quando l’esercito israeliano ha ferito e trattenuto per ventiquattr’ore Hamdan Ballal, attivista e co-regista del documentario premio Oscar No other Land. "È la prima volta che vengo aggredito così duramente e con tale ferocia" aveva affermato lo stesso Ballal al suo ritorno a casa. "È stato un attacco deliberato alla mia vita ed è accaduto soltanto dopo la vittoria dell’Oscar, che credo sia il motivo degli attacchi mirati e delle minacce che stiamo ricevendo di continuo". Le sue parole hanno confermato una tendenza già nota: la volontà di silenziare qualsiasi voce palestinese, soprattutto quella degli artisti in grado di suscitare l’interesse internazionale. Lo si era visto nel 2021, con l’intervento della Corte suprema d’Israele contro il documentario Jenin, Jenin, ma nel caso di No Other Land si è andati oltre, punendo fisicamente i registi, o almeno la metà palestinese del collettivo, Hamdan Ballal e Basel Adra, per aver esposto al mondo le atrocità compiute dai cittadini e dai soldati israeliani.
Già appena rientrato da Hollywood Adra aveva provato a denunciare le minacce di morte ricevute e l’operazione di repressione culturale in atto contro di lui e contro il film. Si è dovuti arrivare però all’attacco a Ballal per prestare ascolto – e soprattutto gli occhi – a ciò che i registi già cercavano di spiegare da tempo. Finché l’attenzione internazionale resterà alta, forse Ballal e Adra saranno al sicuro, ma mai del tutto, come dimostra la morte di Hassouna e anche perché una parte essenziale della loro resistenza sarà sempre la loro evidente presenza sul territorio, a telecamere accese, contro le espulsioni forzate e le violenze dei soldati israeliani.
Non esiste per loro l’opzione della fuga o della richiesta di asilo, che invece spesso diventa l’unica soluzione possibile per registi perseguitati formalmente da alcuni regimi, fra tutti l’Iran. L’esempio più recente è quello di Mohammad Rasoulof, candidato agli Oscar 2025 per Il seme del fico sacro, film sulle proteste di Donna Vita Libertà, girato in segreto. Una volta selezionato per Cannes 2024, nasconderlo è diventato impossibile, tanto che il regista è dovuto fuggire, a piedi, verso la Germania.
Non era riuscito a fare altrettanto Jafar Panahi, di nuovo in concorso sulla Croisette quest’anno, arrestato l’11 luglio 2022 con l’accusa di propaganda contro il governo iraniano. Entrato in sciopero della fame, venne poi scarcerato a febbraio 2023, anche sotto la pressione internazionale. Non sempre tuttavia l’opinione pubblica è efficace contro i tentativi più o meno violenti di silenziare l’arte. In Cina, per esempio, il regista Chen Pinlin, arrestato nel 2022 per aver girato un film sulle proteste contro i lockdown del Covid, è stato condannato a tre anni e mezzo di prigione. O ancora in India, uno dei film più importanti dell’anno, Santosh di Sandhya Suri, non verrà distribuito perché mostra la brutalità della polizia indiana contro gli ultimi della società.
Infine anche per registi russi, come Kirill Serebrennikov, perseguitato dal governo di Mosca ormai dal 2017, a poco sono serviti gli appelli della comunità cinematografica internazionale. Nonostante una lettera firmata da oltre 3500 artisti, il regista ha dovuto ugualmente affrontare un processo-farsa per frode, in realtà indirizzato alle sue idee politiche per la sua posizione sulla Crimea e sulla comunità Lgbtqia+, riuscendo lasciare la Russia solo nel 2022. E anche da esule, aveva dichiarato: "Continuo a consentire a me stesso l’illusione che la mia partenza non sia una fuga permanente".