"Ho una tale sfiducia nel futuro, che faccio progetti solo per il passato" diceva Ennio Flaiano. Fioccano i commenti entusiastici al pari di quelli inviperiti sulla reunion tv dei vecchi Friends: la Aniston e le altre ragazze sono più in forma degli uomini, che meraviglia sentire Lady Gaga intonare Gatto rognoso, ottimo aver scelto per l’episodio un basso profilo modello talk show e non un lavoro di pura fiction con i personaggi calati nella quotidianità di 17 anni dopo, chissà il disastro che sarebbe venuto fuori – sostengono i soddisfatti. Operazione tristanzuola e inutile: a chi importa di sapere, oggi, che la scimmia Marcel stava antipatica a quasi tutti sul set, e come è possibile che Matthew Perry si sia ridotto così, e sarà vero che si vogliono tutti bene o è un'enorme (non richiesta?) messinscena – si lamentano i fan insoddisfatti e neanche rimborsati.
I perplessi, però, devono farsene una ragione: ormai viviamo sprofondati nelle sabbie immobili dell’era dell’eterno revival, dell’eterno remake, dell’eterna reunion. Sequel, prequel, reboot, spin-off. Chi l’avrebbe detto che la retorica passatista, sparsa negli anni Ottanta del Novecento dai tanti Capanna e Minà che rimpiangevano allo sfinimento i Formidabili Sixties, poi nei ’90 dai Fazio e dai Baglioni che arrivarono a propinarci come degni del nostro rimpianto persino i Cugini di Campagna, insomma chi l’avrebbe detto che quell’accidentale ventata di retorica nostalgica – repellente per i giovani di allora – sarebbe diventata il tetragonale paradigma assoluto del Duemila e rotti? Del presente, creato peraltro dagli stessi giovani insofferenti di ieri cioè i cinquantenni reazionari di oggi.
Oggi nulla si inventa e tutto – nella fiction, nella musica – si ricicla. Sembriamo incapaci di creare novità, ciò che non è già sentito conosciuto o catalogato da un algoritmo che lo compari in un attimo a mille altre cose già conosciute e già sentite, non viene praticato: c’è paura che destabilizzi, susciti panico, c’è paura che nessuno lo compri. Al cinema, in tv, tra i fumetti, nella musica e nei videogiochi ci rifugiamo – magari con la scusa figa del citazionismo che è proprio della postmodernità, o con quella dell’ossessione degli anniversari cui ancorarsi mentalmente per non venire travolti dal vuoto dell’ipervelocità delle informazioni – in un bunker del pensiero, cemento armato e porte a tenuta stagna, a sventare il pericolosissimo attacco della sorpresa, del diverso, dell’inaspettato. Bauman aveva già spiegato questa nostra epoca in una parola, retrotopia: "abbiamo invertito la rotta e navighiamo a ritroso; il futuro è finito alla gogna e il passato è stato spostato tra i crediti, rivalutato, a torto o a ragione, come spazio in cui le speranze non sono ancora state screditate".
Indiana Jones e Dune, Willy Wonka e Crudelia Demon, Portobello e la Prova del cuoco; Batman e Superman, Godzilla e King Kong; la reunion dei Police o quella dei Ricchi e Poveri: con qualche aggiustamento, talvolta magari con qualche modifica politicamente corretta (Superman stavolta è donna nera e gay), talvolta solo per un pugno di dollari (vedi Sting sul palco che neanche guarda in faccia Andy e Stewart), loro ritornano – come gli zombie – e noi corriamo ad applaudirli. Come cediamo alla rimpatriata coi vecchi compagni di scuola, come di notte ubriachi cerchiamo su Facebook i vecchi fidanzati. Spinti sempre dalla speranza che ritrovare ora quello che era bello quando eravamo giovani sia ancora bello e renda noi ancora giovani; dimenticando sempre che quella stupida, insoffocabile speranza, verrà regolarmente delusa. In un suo saggio Eugenio Borgna suggerisce di stringere un patto d’alleanza tra la nostalgia e la memoria: è forse questo il passaggio per aspirare all’unica reunion che abbia un senso. Una bella reunion con il nostro futuro.
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