Venerdì 19 Aprile 2024

Festa della mamma 2019, le lettere delle mamme a Quotidiano.net

Successi, insuccessi e racconti della felicità e delle apprensioni del mestiere più difficile che esista

Festa della mamma 2019 (iStock)

Festa della mamma 2019 (iStock)

Roma, 12 maggio 2019 - Ecco alcune delle lettere inviate dalle lettrici di Quotidiano Nazionale e Quotidiano.net in occasione della Festa della Mamma 2019. Sono successi, insuccessi e racconti della felicità e delle apprensioni del mestiere più difficile che esista. 

1) Una madre però non è più questo se i suoi figli non sono più bambini...

Le notti insonni continuano, ma non più a causa del pianto di un bimbo: semplicemente, a causa della vita, che ogni tanto presenta i suoi conti.

Dire mamma è anche domandarsi cosa stanno facendo i tuoi figli, a cosa stanno pensando, quali difficoltà stanno affrontando, eppure riuscire farsi da parte.

Dire mamma è combattere con l'impulso di chiamarli al telefono per rispettare la loro vita, ma rispondere col sorriso nella voce se e quando ti chiamano loro ed hanno (talvolta ancora) bisogno di te. Dire mamma è capire quando sbagliano ma aspettare che se ne accorgano da soli. Dire mamma è gioire per le loro vittorie e soffrire per le loro sconfitte.

Dire mamma è essere talvolta preoccupate per loro ma non farglielo capire.

Dire mamma è la compiutezza di averli amati, cresciuti, educati, preparati e poi consegnati alla vita, piene di paura come quando, da piccoli, abbiamo lasciato per la prima volta il sellino della loro bici senza rotelle per lasciarli pedalare da soli.

Dire mamma è esserci sempre. Dire mamma è accettare la solitudine di certi momenti bui con dignità, senza ricatti morali. Dire mamma infatti, spesso, è silenzio.

Carla

 

2) Cara mamma, a volte i ricordi affiorano in me e il passato è vivo, incondizionato e positivo, ma la malattia ti ha imprigionato in un mondo dove io non ne faccio più  parte perché sei in un'altra dimensione. Eravamo io e te come due rondini dopo che mi avevi insegnato a volare nel cielo infinito intinto dalla brezza ad ali spiegate cullate dai nostri sogni ed dal nostro essere insieme nelle tappe della vita mia in evoluzione. Poi all'improvviso, ti sei fermata ferita e ti sei appoggiata su una grondaia a riparo di un tetto. Ora non puoi più volare, un'ala si è rotta e intorno regna solo il silenzio interrotto solo da frasi sconnesse,ma i tuoi occhi mi dicono tutto. Eravamo due rondini che ora non possono più volare, ma io vorrei avere la forza del vento per ricominciare quel volo interrotto ma devo sempre avere la forza dell'illusione di farti volare anche con la tua ala spezzata per i rivivere i nostri sogni da sempre immutati nel tempo che scorre piano. Mi basta un'immersione nell'anima e in te vedo l'universo, perché la felicità è un percorso non una destinazione. Lasciati andare mamma al mio immenso abbraccio, io ti porterò in volo perché tu possa ammirare le meraviglie del tuo cuore per sempre con me.

Maria Grazia

 

3) Ciao Mamma.

Ti ho raccontato di quando sei entrata nella mia classe per un colloquio con la mia maestra delle scuole elementari e io a momenti svengo?

Il colloquio fu positivo  (all’epoca ero davvero bravina!) ma quello che non sai è che mi ritrovai con un’emozione grandissima  per il sentimento di orgoglio e ammirazione che mi colpirono all’improvviso, quasi da star male: eri così bella, nessuna mamma delle mie compagne era bella come te e io mi sentivo la bambina più fortunata del mondo .

Tanto tempo è passato: il nostro tipo di vita ed i nostri caratteri, così diversi, ci hanno messo spesso in situazioni quantomeno “particolari”…  ma una tua grande dote è sempre stata al centro del nostro rapporto madre-figlia: la concretezza. Separazione: lui, uscito di casa la sera e tu, senza dire una sola parola, ti sei fatta trovare in auto sotto casa, la mattina dopo,  per accompagnare tuo nipote all’asilo, esattamente come faceva il suo papà fino al giorno prima. E lo hai fatto anche per tutti gli anni delle elementari, sempre senza dire una parola .

Come direbbe Cevoli “fatti non pugnette” Grande Mamma!

Paola, mamma di Michele e figlia di Marisa

 

4)INTERNO GIORNO, primo mattino.

Al risveglio mi metto a cantare per mio figlio, che allora aveva 6 anni, dicendogli quanto sia bello avere una mamma che ti sveglia come Biancaneve, duettando con gli usignoli al balcone. Lui sorride e dice: "Mamma con te gli uccellini scoppiano." Ecco la maternità ti mette brutalmente ed ineluttabilmente di fronte ai tuoi limiti e ai tuoi difetti e improvvisamente li fa sembrare gli aspetti più divertenti della tua  vita, forse persino i migliori. La spietata dolcezza di un figlio risolve sempre ogni ogni giornata e crea dipendenza.

Provare per credere! Auguri a tutte le mamme!

Silvia

 

5) Ormai mi conoscono come "La mamma di Barbara". sono nata a Messina l' 8 dicembre 1939, perciò ho quasi 80 anni. Vivo a Roma dal 13 dicembre 1945, dopo la fine della guerra. Il 2 Maggio 1967, all'Ospedale San Camillo di Roma, è nata Barbara, la prima dei miei 3 Figli, gli altri due si chiamano Arianna e Carlo e, anche loro, mi amano e sono tanto amati da me. Purtroppo, in quegli anni, negli ospedali, quando c'erano difficoltà, usavano il forcipe. Barbara è stata rovinata dal forcipe ed ha rischiato di morire, ha avuto una lesione all'emisfero sinistro del cervello e asfissia neonatale, che le hanno provocato una grave disabilità, tutto questo è successo per incuria da parte di chi mi ha "assistita". Allora non si denunciavano i medici e così non ho nemmeno avuto un risarcimento e ho dovuto lavorare, nei Magazzini STANDA, per aiutare la famiglia che, nel frattempo era cresciuta. Tante difficoltà che ancora non sono finite, visto che, alla mia età, ancora vado tutti i giorni nel Centro (CEM) dove vive insieme ad altre 39 Persone con disabilità che, per me, sono altrettanti Figli, che amo come fossero miei e di cui sono la presidente dell' associazione dei familiari (A.GE.CEM onlus). Vi assicuro che non è facile essere la mamma di tanti Figli ma non immaginate quanto Amore e quanta voglia di vivere riescono a darmi, fino a farmi dimenticare la mia età e mi danno la forza, e la grinta, nel combattere contro le istituzioni che non ci tutelano come dovrebbero. Probabilmente la mia storia nemmeno la prenderete in considerazione ma non importa, a me è piaciuto raccontarvela, se volete mi trovate su facebook dove potrete trovare le foto di Barbara e di tutti gli altri Ragazzi del CEM.

Un caro saluto

Maria

 

6)  Mamma,una piccola parola che racchiude un mondo fatto di gioie immense,ma tante ansie e preoccupazioni! I primi vaccini,un incubo,la febbre che saliva la sera,io e il termometro un'unica cosa,o come quel giorno che è letteralmente volata giù da fasciatoio,le mie urla disperate(lei nemmeno una lacrima) la corsa in ospedale,in quel momento ero sicura che sarei morta da un momento all'altro… Ma poi la gioia immensa dei suoi progressi,i suoi primi passi,la prima volta che mi ha chiamato MAMMA..in quel momento il cuore scoppiava per la felicità. Non posso negare,nei momenti di stanchezza,quando mi sento sommersa dalle responsabilità, quando devo scegliere per lei,quando mi tiene sino a notte fonda seduta nel pavimento a giocare,la voglia di fuggire via..Poi la guardo sorridere,chiamarmi mille volte mamma,e capisco che essere MAMMA è il mestiere più difficile al mondo,ma quello che da un vero senso alla vita!

Paola

 

7) Avete presente quando vi sentite dire: «Ora che sei madre ti senti realizzata?». Ecco, educatamente sorrido, ma dentro di me penso: ma sei sicura? Prima non eri felice? Ti faceva così schifo avere una montagna di tempo libero, poter uscire ogniqualvolta tu lo desiderassi? Era così brutto rientrare a casa e trovarla esattamente come l’avevi lasciata al mattino? Immagino sia stato terribile dormire tutte le ore di cui avevi bisogno e poter fare l’amore senza interruzioni. Penso al mio passato, prima di essere mamma. Ricordo momenti bui e tempi felici, dove la vita ti porta sulla cresta dell’onda e ti gusti il sapore della libertà. Ritrovarmi mamma non l’ho vissuto come un pretesto di riscatto. Ero felice anche prima, in modo differente ma lo ero. Piuttosto, la maternità la percepisco come un’ulteriore crescita personale, dove ogni giorno intreccio fatica con continui gesti d’amore. Vorrei poter accompagnare i miei figli lasciando da parte i miei desideri e rendermi per loro, ogni giorno che passa, meno indispensabile. Ci metterò tutta me stessa per farli volare con le proprie ali, ovunque la vita li porti.

Margherita, mamma di Ettore e Brigitta

 

8) Dicono: bene signora, tutto a posto, finalmente potete andare a casa. Hai il trolley con cui era entrata in ospedale e in più il portabebè con dentro un aggeggio avvolto dentro dodici coperte di pile e stai per uscire. Possiamo andare: sorriso. Esitazione. Vai avanti te con la bambina, dici al corresponsabile. Intanto torni indietro, ti guardi intorno, cerchi qualcuno, cerchi qualcosa. Non apri bocca ma senti che ti manca, e vorresti chiederlo: ma come? e a chi? Insomma: mi avete dato la mia bambina, ochei, fantastico. Ma il libretto con le istruzioni? Può capitare. Può capitare che il primo giorni torni a casa con il neonato, e ti ritrovi sola con lui. Magari perché il padre deve andare al lavoro, e magari lavora in un'altra città. Metti il massimo della sfiga: non ci sono neanche i nonni. Arriva qualcuno di famiglia, ma dopo un po' deve  andarsene pure lui: tanto ce la fai, vero? Certo, ci mancherebbe. Passa un'amica, verso sera. Ti guarda, dice mi sembri una profuga appena scesa dal barcone, rilassati e vatti a fare una doccia, alla bambina ci penso io. Ma anche l'amica dopo un po' andrà via. E poi? Ai corsi preparto - mai un'assenza - la parola d'ordine è sempre stata "naturale": l'allattamento? Niente paura, signora, le verrà naturale. Capire i  bisogni del bambino, perché piange, quanto è giusto che dorma, se piscia o fa la cacca nel mondo giusto o sbagliato, se la garza sull'ombelico è a posto, se le gambe sono troppo rannicchiate, se io mi addormento e lui si addormenta in quel modo sbagliato e muore e io non me ne accorgo? Capire se va tutto bene o se va tutto male, comunicare: come si fa? Niente paura, rassicurano ai corsi preparto. Le verrà verrà tutto naturale. Naturale un tubo. Il latte che doveva sgorgare in allegria copioso dai seni, si rivela con somma ansia e assoluta incredulità un siero giallastro presto mescolato al sangue delle ragadi e prodotto in tale quantità che non  riuscirebbe a tenere in vita per due giorni una zanzara nana, figuriamoci saziare un neonato. Passi al latte artificiale e ti senti ovviamente in colpa: non sono capace di nutrire mio figlio. Assisti per la prima volta al neonato che espelle il latte artificiale in un rantolo e in preda al panico - non scherzo - chiami l'ospedale: oddioooooo, un'ambulanza, la bambina ha rigettato tutto, ora muore, e l'interlocutore dall'altra parte al telefono non è che non capisce la tua disperazione, ti compatisce e basta: signora, è solo un rigurgito. Ri-gur-gi-to. Impari questa parola. Succede spesso, lo fanno tutti i bambini, non può chiamare l'ospedale per un rigurgito. Non può venire al pronto soccorso se la bimba lacrima da un occhio e tiene l'altro chiuso, è solo un accenno di congiuntivite, non è un dramma lo sanno tutti. Va bene, va bene, mi scusi. Scusate. Lo sanno tutti ma io non lo so. Io non lo so perché la neonata per un anno intero di notte non dorme. La tengo in collo, vado su e giù per il corridoio, cullandola. Provo a metterla nel lettino, e piange. Se piange secondo me soffre e io non voglio che lei soffra. La riprendo in collo e smette di piangere, non dorme, mi fissa negli occhi con i suoi occhi spalancati. Inizio a pensare: forse non la guardo con abbastanza amore. Forse non le trasmetto abbastanza serenità e sicurezza. Forse ha capito che sono propensa a impazzire, al decimo mese di notti in bianco arriverò a convincermi che i suoi occhi spalancati sono gli occhi di Santana e allora la ucciderò e la seppellirò dentro un vaso di quelli in terrazzo dove mio marito coltiva il basilico. Ed è nel corso di una di quelle notti che a un certo punto, guardandoci dritte negli occhi, le dico: basta,  ragazza, qui il gioco si fa duro, bisogna mettere dei punti fermi. Il mio unico punto fermo in questo momento è che se non ho nessuna fiducia in me, in te invece ne ho tantissima, amore mio, ma proprio una fiducia smisurata.Adesso e per sempre. Alla fine (insomma non proprio alla fine) degli occhi di Satana e del resto ne parlai con una psicologa (a pagamento, ovvio). Le spiegai che non ero una buona mamma, che forse in realtà non volevo bene a mia figlia perché non riuscivo a capirla. E fu lei che mi spiegò un sacco di cose. Tipo che il bambino appena nato parla un linguaggio tutto suo, e probabilmente riesci a comprenderlo solo se qualcuno quel linguaggio te l'ha già impresso nel sangue, se te l'ha trasmesso (sentimentalmente? telepaticamente?), insomma se qualcuno l'ha già parlato con te quando eri appena nato, o giù di lì. Sennò non c'è verso: lo devi costruire dal nulla, lo devi costruire insieme ai tuoi figli ma non è un'impresa impossibile. Può essere un linguaggio a casaccio, un po' fatto di fisicità, un po' fatto di storie scritte da qualcun altro, se tu in quel momento non sei capace di inventarle. E' un linguaggio che non deve essere giudicato dall'esterno, dalle convenzioni dagli standard o dal super ego. E' quello vostro, con i vostri limiti e i vostri errori: ma è solo nel momento in cui li accetti, errori e limiti, e smetti di giudicarli, che il linguaggio ha la libertà di sbocciare, e di farvi crescere insieme. Così, via via che si cresce insieme con i figli, si ripensa a noi stessi figli, e al nostro passato e quello che era sempre sembrato normale, può rivelarsi un abisso. Confronti quello che provi te per tua figlia, e ti chiedi perché quello che ora ritengo per lei con assoluta certezza e spontaneità l'indiscutibile minimo sindacale affettivo, mia madre non me l'ha dato ma lontanamente neanche per sbaglio? E perché me ne accorgo solo adesso? Era cattiva lei, ero sbagliata io? O forse anche lei ha avuto una madre che gliel'ha negato? Ed è solo una catena di dolore che fa parte (naturale, quella sì) della vita, e nonostante Schopenhauer, sta solo a noi provare a spezzarla, e l'amore per un figlio  è la possibilità di grimaldello che ci viene regalata, a un certo punto, se siamo molto fortunati? Sul libretto d'istruzioni che si sono dimenticati di darmi in ospedale forse c'è scritto che una volta che diventi madre, diventi madre non solo di tuo figlio, ma anche dei tuoi genitori. Diventi madre un po' pure delle persone che hai intorno. Diventi madre di te stesso.

Chiara

 

9) La maggioranza delle donne desidera crearsi una famiglia ed avere dei figli. I giorni in cui si realizzano questi desideri sono pieni di gioia e di commozione che li fanno rimanere indelebili nella nostra mente. Quando mi accorsi di essere in attesa ero contentissima, sembrava che fossi la prima donna che aspettava un bambino! Spesso mi accarezzavo la pancia immaginando il suo volto, il colore degli occhi e dei capelli. Quando iniziò a muoversi cercavo di indovinare se avesse spostato un piedino o una mano, talvolta percepivo dei movimenti striscianti come se si volesse far sentire ancora di più. Ogni tanto si affacciava la preoccupazione su come si sarebbe svolto il parto, mi chiedevo se avrei sofferto, quanto tempo sarebbe stato necessario, ecc. Un calcio all’interno della mia pancia mi riportava alla realtà. Finalmente arrivò il grande giorno, ero in ansia e aspettavo di abbracciare il mio batuffolo, ma le cose presero una direzione diversa da quella tanto attesa. La bambina era in posizione podalica e ciò gli causó un’asfissia neonatale dalla quale derivò una tetraparesi spastica. Ebbe inizio un percorso che mi chiese un grande impegno e lo sforzo quotidiano per capire le strategie necessarie da seguire per aiutare mia figlia a sviluppare al massimo le sue competenze. In questo percorso non rimasi da sola perché dopo quattro anni mi accorsi di essere ancora in attesa. Ero molto preoccupata, temevo di non saper voler bene al nuovo fratellino quanto ne avevo voluto alla primogenita. Immaginate la mia reazione quando, dopo un’ecografia, mi fu detto che i bambini erano due. Fu un parto splendido e Angela ebbe due allenatori eccezionali, un maschio e una femmina, che la stimolavano continuamente. La storia non era ancora terminata perché i gemelli crescevano in fretta ed Angela voleva un fratellino piccolo!! Improvvisamente dieci anni dopo mi ritrovai nuovamente con il pancione, la bambina era al settimo cielo. Questo fu il suo bambino, lei pensava a tutto ciò che gli serviva, spesso non sapevo neppure cosa aveva nell’armadio perché Angela trovava sempre qualcuno che la accompagnasse per andare per negozi dove sceglieva e decideva cosa comprare per il suo Gianni.

Nanda

 

10) RACCONTO

E’ iniziato tutto piano piano. Come un buco scavato con il cucchiaino, e da quel buco sempre più grande sono evasi i suoi pensieri, i ricordi, il senso del tempo e la parola. Scriveva frasi che udiva alla radio su pezzetti di carta che piegava e ripiegava come tanti organetti, seminandoli in giro per casa. Trascriveva più volte la stessa ricetta di cucina, leggeva a voce alta i nome dei Santi nel calendario. Fin che non ha capito più a cosa servissero gli occhiali. Ha smesso di scrivere e di capire cosa leggeva. Ha iniziato a nascondere tozzi di pane della colazione nelle tasche. Si vestiva con gonne che non metteva da anni e con le calze più vecchie che aveva. Se le dicevo: mamma ne hai di più nuove, pareva rispondermi: sei proprio ricca tu! Vuoi buttare via tutto! Svuotava l’armadio, sparpagliava le sue cose sul letto, il giorno dopo faceva la stessa cosa. Andava da una stanza all’altra sempre alla ricerca di qualcosa. Cercava di aggrapparsi al mondo, inventava la vita che non aveva più.

Dopo mesi trascorsi a minimizzare e a spiare di nascosto con apprensione crescente il barattolo del sale in frigorifero, quello del caffè nella specchiera del bagno, una sera è uscita in giardino per dare la buona notte ai suoi gatti e non è più riuscita a infilare la porta di casa. Così decisi di accompagnarla al “Centro della memoria”. Quel mattino mia madre si gira intorno più confusa e smarrita di sempre. Non riesce ad annodarsi il fazzoletto, non trova la borsa, ha smarrito il portafoglio. Tra le lacrime riesce a dirmi che nessuno le aveva detto di questo appuntamento, è spaventata. Salendo in auto mi accorgo che sotto il cappotto ha ancora le ciabatte, allora riapro la porta, lei si mette le scarpe e io l’aiuto ad allacciarle. Oggi ha i piedi gonfi, forse non ha preso la medicina. Scosto il nodo che mi sale da dentro; devo farlo imparando dalla sua fragilità. Ogni giorno mia madre non è più quella del giorno prima. Poi arriva qualche miglioramento a sorprendermi, ed io ho bisogno di credere che questo possa durare. Ma dove emigra la sua mente quando usa il cucchiaio al posto della forchetta, quando non ricorda a cosa serve un colino, una grattugia? Cosa occupa lo spazio della nostra memoria quando questa se ne va? Mi piace pensare, ad un vuoto dolce, per lei. Un amabile nulla. Un sublime senso di leggerezza, di spiritualità.

Per strada si guarda intorno e sento che bisbiglia le sue preghiere. Le preghiere sono le ultime ad essere dimenticate; si ricordano anche quando quella famosa memoria vacilla. Un mistero che ha a che fare con Dio. Per il ‘Centro’ è ancora prestino, così ci fermiamo in banca, lei ha espresso in qualche modo di voler prelevare un po’ di soldi. Entriamo nell’angusto oblo-sicurezza, si attiva la voce meccanica: si prega di tornare indietro e depositare gli oggetti metallici nella cassettiera. ‘Cosa dicono?’, chiede. La banca è vuota, gli impiegati ci salutano in coro; ci avviciniamo al primo sportello, mia madre non trova il libretto, la sua borsa ha troppi scomparti tutti uguali. Non voglio sostituirmi a lei, quindi attendo che continui a cercare, nessuno è sul fuoco. Quando con fare tremolante consegna il libretto, il cassiere quasi gridando le chiede: ‘Quanto preleva signora?’. Sarà vero che i vecchi sono tutti sordi? Penso tocchi a me rispondere, ma mia madre mi anticipa decisa e dice: 500. A me sembrano tanti (e in casa dove li tiene, si ricorderà dove li mette?) ma lei con un altro guizzo di lucidità aggiunge che oggi i soldi non fanno alcuna riuscita. Mia madre in questo momento ragiona, eccome!

Quando usciamo ha gli occhi stanchi. Questo mondo veloce e caotico non fa per lei. Dobbiamo andare in farmacia, che è a fianco alla banca, ma quando ci siamo davanti, lei riconosce che quella non è la sua farmacia! Le rispondo che le sue medicine le troveremo pure qui. Si convince, entriamo, mostriamo la ricetta, ci vengono servite quelle per la circolazione, il cuore e il diabete, quindi usciamo a braccetto, facendo attenzione ai diversi su e giù del selciato. Attraversiamo la città: stamattina c’è un particolare traffico, becchiamo tutti i semafori rossi, ci sono anche dei lavori in corso. Io cerco di parlare per farmi sentire più vicina, ma lei resta silenziosa girata dall’altra parte; forse ce l’ha con me. Ricordo ancora con dolore il momento in cui la dottoressa del “Centro” le ha chiesto che giorno era, che mese era, quanti figli aveva e il loro nome, e lei cercava i miei occhi per avere un suggerimento. Il suo silenzio era la sua diagnosi. Spesso qualcuno chiedeva: ‘Ma ti riconosce ancora?’. Non aveva senso questa domanda, per me. Le madri, anche se ammalate di dimenticanza, non dimenticano di essere madri. Lei in modo sempre più lieve, etereo, suo, abitato da immagini che solo lei poteva vedere, riconosceva la mia voce e i miei gesti, ne sono sicura. Riconosceva le mie mani quando stringevo le sue, perché il suo volto diveniva un sacro apparire di dolcezza. Quali sentimenti aveva rimasto?

Fino a quando è sprofondato in un limbo sempre più buio della sua mente. Ha dimenticato completamente il mio nome e chi ero. Questo è stato uno dei colpi più tristi per me perché era mia madre, la stessa madre della mia infanzia. Quando teneva la casa meglio che poteva, spendeva il minimo indispensabile, riusciva a nutrire e a vestire la famiglia numerosa, a mandarci a scuola senza buchi né macchie. Quando rigirava i colletti e i polsini delle camicie di mio padre, conservava il pane duro, le croste del formaggio sbucciava le patate e la frutta senza intaccare un minimo di polpa e guai non fare altrettanto. Ricordo che conservava la cenere del bucato. Prima che la stufa si spegnesse, la sera metteva sopra una pentola per avere l’acqua tiepida da lavarci la faccia al mattino. Quanto tempo è passato? Ora vorrei essere un pittore per dipingere le sue mani. Mani vissute, nodose, incallite dal lavoro, eppure tremanti e fragili. Quelle stesse mani rosse e screpolate dal freddo quando andava a lavare i panni nel fosso. Per “cornice” c’erano le nostre grida felici, la fantasia di creare bambocci di fango, collane di foglie, la sveltezza inutile di acchiappare girini nell’acqua. Mentre lei, con una balla piegata e ripiagata sotto le ginocchia, anche nel gelo dell’inverno, lavava. Mi pare di sentire i tonfi dei panni di cotone induriti dal gelo sbattuti sul lastrone di sasso, che per metà spariva sott’acqua della pozza. Un’acqua chiara, verdognola ai bordi, dove si rispecchiavano i rami degli alberi e il cielo sovrastanti. Io l’accompagnavo spesso, pur sapendo che il tempo del bucato era interminabile. Arrivava il momento in cui l’aiutavo a torcere le lenzuola per togliere il più possibile l’acqua dalla trama, così il mastello sarebbe stato più leggero da trasportare. Dal punto in cui lei immergeva, insaponava, strofinava e risciacquava i panni, partiva la schiuma del sapone che si andava a fermare fra le canne, sotto il pendio dove vivevano i girini, per poi dissolversi in fretta.

Quando a nove mesi di gravidanza volle sbrigare l’ultimo bucato giù al fosso, fu colta improvvisamente dalle doglie. All’inizio cercò di ignorarle ma quando dissero davvero, lasciò tutto come stava. Dopo poco nacque mio fratello. Solo in rari momenti della giornata si fermava. La ricordo seduta in un angolo della cucina a fare il formaggio. Lo raccoglieva dalla pentola e lo adagiava nello scudlotto di terra cotta, che aveva tre fori sul fondo. Premendo col palmo delle mani sulla palla bianca, questa diventava via via compatta e liscia, assumendo la perfetta forma del recipiente. Considerato finito, salava il formaggio e lo deponeva a maturare nella formaggera. Io volevo imitarla, ma le mie mani erano troppo piccole e frettolose e il formaggio si sfrigolava tra il siero, senza che potesse raggiungere la terra cotta. “Infatti” mia mamma diceva sempre che per fare un bel formaggio bisognava addormentarsi sopra! E lei era così stanca che ci riusciva senza sforzo. Spesso si teneva vicino un libro da leggere e finita la pagina, avendo le mani occupate, chiedeva a me di voltarla. Incredibile quante cose riusciva a fare mia mamma in una volta! Le sere d’inverno si sedeva accanto al fuoco a sferruzzare la calza. Quello era il suo unico momento di riposo: poteva farlo anche ad occhi chiusi, le sue mani andavano da sole. Io, bambina allora, pensavo che lei sarebbe esistita per sempre. Come il mondo. Se qualcuno ora mi chiedesse che mamma è stata, risponderei che è stata una mamma non sempre di zucchero… A volte più esigente di mio padre. Eppure una donna forte, una mamma giusta.

Stanotte ho sognato che andavo a trovarla in un ospizio. Era il giorno del suo compleanno e le avevo portato un mazzo di rose antiche, quelle che fiorivano a maggio intorno alla nostra casa di montagna. Nel sogno, lei era seduta vicino ad una finestra, indossava una veste a piccoli fiori e i suoi capelli erano raccolti nel suo solito ordinato concino. Avvicinandomi l’ho salutata poi le ho rivolto alcune parole. Ma lei è rimasta muta, con lo sguardo rivolto al nulla. Le ho dato un bacio, la sua pelle era tiepida, del colore del cielo quando sta per nevicare, così ho cercato di scaldarla e accarezzarla con la grazia che avevo imparato dal suo amore per me. Quando le ho posato le rose sulle ginocchia ha versato una lacrima, rimasta ferma nell’incavatura degli occhi, come un grido imprigionato. Solo allora mi sono ricordata che mia madre soffriva di quella malattia che si nutre sottraendo: che stacca i comandi, annienta le cellule, distrugge la memoria. Che si chiama Alzheimer.

La malattia che nella realtà ce l’aveva resa una bambina silenziosa, che non sarebbe cresciuta, ma con un sorriso disarmante, serena, persa in chissà quali cieli. Ed ora, nel sogno, c’era quella lacrima, quell’emozione che il profumo delle rose aveva risvegliato dalla memoria dei suoi ricordi. Mi rispondano i medici, o Dio, adesso, cosa resta...

In quello stesso istante si è avvicinata un’inserviente che spingeva un carrello con le tazze della colazione; le ho chiesto come stava mia madre e lei per consolarmi ha risposto che andava tutto bene: mia madre era la più brava, anche quel mattino aveva finito il latte. La stesse parole che mi diceva la maestra quando andavo a prendere mia figlia all’asilo. Poi la donna ha proseguito indaffarata il suo lavoro.

Ho aiutato mia madre ad alzarsi dalla sedia, ancora riusciva a camminare con le sue gambe, e a braccetto siamo entrate nella chiesetta dell’ospizio. La messa del mattino era già cominciata. Alcuni anziani fissavano la veste porpora del prete credendo di essere ad una festa; pochi riuscivano a seguire la funzione: i più dormivano nelle carrozzelle come ombre di ciò che erano prima. In quel momento qualcuno mi ha chiesto di recitare l’Ave Maria, a voce alta, affinché tutti, anche i più sordi e i più “dementi” potessero sentire. Si è levato un coro leggero di preghiere, nessuno era più assente, nessuno più soffriva. E in mezzo al coro ho riconosciuto la voce di mia madre. Mi sono svegliata di soprassalto con il pensiero di andare a casa sua ad assisterla, come era avvenuto per diverso tempo, mentre mia madre nella realtà era nel camposanto da più di un anno. Lo stesso giorno, ho promesso che mi sarei messa a scrivere per non perdere il legame col mondo da cui provengo. Per salvare l’immagine di mia madre e le sue stesse parole che aveva dimenticato. Affinché tornassero a me, a noi, al mondo, alla natura dei fili d’erba, degli alberi, del vento. Come un eco prezioso, un insegnamento antico dell’universo. Così mia madre avrebbe continuato ad esistere per sempre. Come credevo quando ero bambina.

Tonina

 

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