Falso, vero, genio. Un papà di nome Manga

A un secolo dalla nascita dell’intellettuale, la figlia Lietta racconta Manganelli: "Ci ritrovammo dopo anni a Roma. Con un Gadda infuriato"

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di Matteo Massi

Non ebbe in sorte di finire su una canzone di Franco Battiato. Come accadde invece a Tommaso Landolfi in Mesopotamia. Quello dalla vita cinica e interessante, di cui si occupò anche Giorgio Manganelli che ne scrisse. Così come di quel Premio Strega (1975) che vinse Landolfi stesso, senza che lui andasse alla cerimonia di premiazione. Ma ora che sono passati cent’anni dalla nascita di Manganelli, citando il Maestro Battiato: che cosa resterà di lui e del suo transito terrestre?

Lietta, la figlia di Manganelli, che all’anagrafe è Amalia, perché su Lietta arrivò il divieto del prete che avrebbe dovuto battezzarla ("nome troppo ebraico" disse al papà non ancora scrittore, ma solo traduttore) e Manganelli si accontentò del vezzeggiativo Amalietta, recidendo poi il prefisso “Ama” e scegliendo di chiamarla, come avrebbe voluto (Lietta, appunto); racconta di questo padre poco ingombrante in presenza (perché stette con lei poco tempo) e decisamente significativo in quello che sarebbe diventato.

Chi è Giorgio Manganelli? Pier Paolo Pasolini lo definì un "teppista della letteratura", Edoardo Sanguineti un "buffone metafisico" e Luciano Anceschi che poteva dire, a torto o ragione, di essere il suo mentore, il "Mangamagnifico". Per Lietta, che da anni tira avanti il centro studi Manganelli, era innanzitutto papà (come ricorda anche nel libro Aspettando che l’inferno cominci a funzionare, La Nave di Teseo). Quello con cui riannodò il rapporto per via epistolare, quando lui se ne era già andato a Roma. Quello che le consigliava di fronte a una storia di "provare a guardarla da un’altra parte". Dov’è la verità e fino a dove può spingersi la finzione? Con il talento di un equilibrista che sa maneggiare, scortecciare le parole, Manganelli è rimasto sempre sospeso tra realtà e finzione nella sua produzione letteraria, così vasta e variegata.

Erano finzioni quelle storie che le raccontavano, quando lei era piccola, nel salottino rosso della casa milanese. Ma sembravano vere. C’era anche Alda Merini, allora minorenne (17 anni) che s’infatuò di Manganelli e che disse alla moglie del Manga (lo chiama anche Lietta così) Fausta, che si era innamorata di lui. Lietta era piccola e vide dopo poco suo padre lasciare la madre – anche se i due avevano vissuto comunque quasi sempre seppure da un centinaio di di chilometri – e andare verso Roma.

A Roma Manganelli avrebbe trovato Italo Calvino, Umberto Eco e anche la Rai, intesa come radio, dove avrebbe iniziato a lavorare e a scrivere, agli inizi degli anni ’70, le formidabili interviste impossibili. Ma nella capitale, era il 1953, ci arrivò in treno. Non con la sua Bakunina, la Lambretta. Dava un nome a tutto, anche alla macchina per scrivere. Quella si chiamava Patrizia, con cui ingaggiava una lotta che era anche una sfida più in generale alla tecnica: riusciva a scrivere con due soli tasti sulla macchina e faceva una manciata di refusi. Quando a una Buchmesse, a Francoforte, assieme a Giulio Einaudi, gli diedero una macchina per scrivere elettronica – perché non aveva la sua – stava quasi per impazzire ed Einaudi consigliò, per calmarlo, di portarlo a vedere una mostra sui fiamminghi. Al museo Stadel.

Lietta di quel padre – che finalmente il 19 gennaio del 1961, un freddo giovedì pianse per aver scritto il primo libro (il suo Hilarotragoedia che uscì però solo nel 1964) – porta in serbo anche la parte più intima. Che sono, appunto, quelle lettere. La prima che le scrisse si apriva così: "Io pensavo da tempo che doveva pure arrivare il momento in cui noi due avremmo ripreso il dialogo". Poi l’incontro: estate 1964, Lietta e la mamma sono in viaggio verso la Sicilia in treno e si fermano a Roma. Fausta le dice: "Hai vinto". E la porta in un palazzo dove al terzo piano abita lui, il papà di Lietta. Lei suona e arriva un signore robusto e in bretelle: "Scusi, è il professor Manganelli? Allora io sono sua figlia". Quel giorno nella casa di Manganelli arrivò un Carlo Emilio Gadda infuriato che sosteneva che Hilarotragoedia fosse una parodia de La cognizione del dolore. Ma Lietta aveva finalmente rivisto suo padre, grazie a sua madre. E sarà destino, forse, che Manganelli si spegnerà nel 1990 a due mesi di distanza dalla morte della sua ex moglie Fausta. Quella che, secondo Quasimodo, scriveva in versi meglio di lui.

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