Mercoledì 24 Aprile 2024

Faggin, il genio dei bit: mai schiavi delle macchine

Il fisico che ha rivoluzionato l’informatica: "Sentimenti e coscienza esclusiva dell’uomo"

Federico Faccin nel 2010 premiato da Obama e nel '71, nascita del primo microprocessore

Federico Faccin nel 2010 premiato da Obama e nel '71, nascita del primo microprocessore

Roma, 14 ottobre 2019 - Cuore e pelle. Se le macchine – dagli smartphone ai tablet – hanno un cuore (che si chiama microprocessore) e una pelle (che si chiama invece touchscreen), il merito è anche di un italiano: c’è la sua firma nell’invenzione di questi due dispositivi elettronici. Federico Faggin, veneto, 78 anni, dal 1968 vive negli Stati Uniti.

Un cervello in fuga ante litteram? "No. Fu tutto molto casuale. Avevo un lavoro in Italia, ma trovandomi in California per ragioni di lavoro decisi di rimanere".

Da un paese del Vicentino alla Silicon Valley, un triplo salto carpiato? "Sono nato a Vicenza e quando avevo un anno e mezzo, nel 1943, i miei sono andati a Isola Vicentina, un paese di 3mila abitanti, perché c’era la guerra e la nostra casa a Vicenza era in pericolo".

Dalla provincia italiana si sarebbe mai immaginato che il mondo, settant’anni dopo, sarebbe diventato così come è ora? "Credo che nemmeno il miglior libro di fantascienza sarebbe arrivato a predire una società in cui Internet e i computer avrebbero trasformato la società com’è ora. Certo, molte cose predette non sono poi avvenute. È successo con la macchina volante. Negli anni ’50 si pensava che ognuno ne avrebbe avuta una. Ma nessuno aveva mai pensato che ogni individuo avrebbe avuto invece un personal computer e che sarebbe stato su un pezzetto di silicio monocristallino ed è successo proprio questo".

Com’è stata la sua infanzia? "Come quella di un qualunque bambino che nasce in provincia. Sono cresciuto parlando in dialetto, le case coloniche non avevano nemmeno la corrente elettrica, in certi casi si viveva come prima della rivoluzione industriale. Poi dalle campagne alle fabbriche, con la gente che lasciava la terra per andare a fare i turni alla catena di montaggio".

Dal suo ‘piccolo mondo antico’ dove rivolgeva lo sguardo? "Agli aerei, mi sarebbe piaciuto costruirli. Ma a 19 anni ho costruito il mio primo computer all’Olivetti".

Diciannove anni: era il 1960. Ma l’Olivetti era già così avanti? "Avrebbe potuto avere ben altro ruolo sulla scena internazionale dell’elettronica. Per quegli anni era molto avanti, ma non ha scommesso sull’elettronica come avrebbe potuto e (forse) dovuto. Quando lancia nel 1965 la calcolatrice programmabile da tavolo Programma 101 (considerata da molti il primo personal computer della storia, ndr), non c’è niente che la superi. Ma poi non ha dato seguito a quel progetto e Hewlett Packard nel frattempo l’ha superata e infine l’Olivetti perse il ruolo di protagonista sull’elettronica".

Palo Alto, la Silicon Valley: quando ci arriva, i creativi sono considerati ancora dei visionari, poi, nel pieno della bolla tecnologica, diventeranno manager. Com’è cambiata la valle dell’innovazione? "Quando arrivo io, la valle è una distesa di orti e frutteti. E in realtà in quel momento tutta la Silicon Valley è poco più di Palo Alto. Allora c’erano 200mila persone coinvolte nell’hi-tech e nel suo indotto. E da allora gli abitanti della Baia di San Francisco, che erano circa 4 milioni, sono diventati 7. Oggi la Silicon Valley dà lavoro a 15-20 milioni di persone in tutto il mondo. Con l’impegno nell’auto elettrica, a guida autonoma, è diventata un ecosistema". 

Ha incrociato e incontrato nella sua vita un po’ tutti i big della Silicon Valley. Come andò con Steve Jobs? "Fu l’unico che capì subito le potenzialità del touchscreen; Nokia e Motorola, cui presentammo il prodotto, non ci calcolarono proprio. Noi eravamo già fornitori di Apple, ma Jobs voleva l’esclusiva del touchscreen. Non pensai sul momento che avrebbe potuto utilizzarlo per un telefono. Quando lo fece, alla fine avvantaggiò anche noi, perché cominciammo a venderli ai suoi competitor". 

La Silicon Valley come ecosistema, ma alcune teorie sul rapporto uomo-macchina rischiano di essere pericolose. Lei che ha creato le basi per molte di quelle macchine, dagli smartphone ai tablet, sostiene che la migliore macchina rimane l’uomo. "L’idea propinata nella Silicon Valley che tra 30-40 anni le macchine saranno consapevoli, è un’idea pericolosa. È scientismo questo, non scienza".

Al cuore (microprocessori) e alla pelle (touchscreen) freddi delle macchine, preferisce ancora quello degli umani. "E sarà sempre così per me. Il computer può amplificare di molto l’aspetto meccanico dell’intelligenza, ma lì si ferma. La coscienza non ce l’ha. L’aspetto creativo, l’immaginazione, i sentimenti sono tutte cose che le macchine non possono avere".

Tornando alla domanda iniziale, se avesse immaginato da Isola Vicentina che il mondo sarebbe diventato così, che avrebbe fatto? "Sono sorpreso, ma non lo rigetto. Se mi chiede: avrebbe costruito comunque quello che ha costruito? Le rispondo di sì. Non lo rinnego. Io credo che ci stiamo avvicinando al momento cruciale: l’uomo deve decidere se è solo macchina o molto di più di una macchina. Altrimenti il rischio è quello di ritrovarsi un’umanità schiavizzata dalle macchine controllate dai potenti. Dobbiamo finalmente scoprire la nostra dimensione spirituale e imparare a usare le macchine per il bene comune".

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