Mercoledì 24 Aprile 2024

Enigma Bussotti, l’arte della musica totale

Il grande compositore si è spento ieri alla vigilia dei novant’anni. Un maestro del ’900 tra sperimentazioni fantasiose e ricerche audaci

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di Elvio

Giudici

Se c’è un autore difficile da inquadrare in una delle caselle che fanno tanto comodo, questi è Sylvano Bussotti. Musica, la sua, intrisa d’una spiccatissima vena autobiografica, riversata nelle note in complessi, spesso proprio enigmatici, contorcimenti allusivi.

Morto ieri a Milano alla vigilia dei 90 anni (li avrebbe compiuti il 1° ottobre), nato a Firenze studia nella sua città, si forma a Parigi con Max Deutsch (allievo e poi assistente di Schönberg; tra i propri allievi ci fu anche György Kurtág), ma ha sempre affermato che la sua natura artistica si formò attraverso l’amicizia col critico musicale Hainz- Klaus Metzger (altro allievo di Deutsch) e col poeta Aldo Braibanti, assiduo di casa Bussotti fin dagli anni Quaranta, compagno del fratello maggiore e pittore Renzo nell’aderire al Partito Comunista clandestino: con Renzo e Aldo prende attivamente parte, nel 1947, all’esperienza di Torre Farnese a Castell’Arquato, un laboratorio artistico nel quale convivono lavori di ceramica, poesia, teatro, musica.

Entra nel mondo musicale come seguace più o meno stretto di John Cage, colui che Schönberg liquidò sbrigativamente con "non è un compositore" e che sull’esempio di Edgar Varése esplorò la materia sonora includendovi anche il “rumore”.

Nascono partiture strane e purtuttavia intriganti, nelle quali schegge sonore tradizionali galleggiano in guisa di relitti in un mare apparentemente amorfo di suoni. Tableaux vivants per due pianoforti, ad esempio (giovanile cavallo di battaglia della celebre coppia Bruno Canino-Antonio Ballista), non prevede – come fa Cage – materiali estranei (pezzi di cartone, gommini di bottiglie) adesi alle corde, ma un modo parecchio eterodosso di sollecitarle, nonché frequenti colpi di coperchio, per terminare in indistinti mormorii fatti crescere fino a sonorità assordanti.

Un tratto affascinante di Bussotti è la componente grafica di molti suoi lavori, come ad esempio Sette fogli, per organici di varia natura: la notazione musicale inserita in figurazioni a china singolarissime (spirali, code di sirena, quadrati, segmenti intersecantisi, prospettive distorte) che ne fanno oggetti contemporaneamente musicali e pittorici.

Negli anni Settanta, Bussotti s’avvicina al teatro – lirica, balletto, prosa in commistioni multiple – apportandovi tutta al forza icastica del proprio autobiografismo. Nascono lavori assai significativi come Lorenzaccio, irriverente eppure acutissima parodia del grand-opéra francese, dove convivono prosa – testi parlati scritti dallo stesso Bussotti e brani del lavoro teatrale di de Musset – ballo, canto, azione mimica, e Passion selon Sade: il divin marchese non figura con le parole bensì con strumenti di tortura, intervallati con l’oggettistica più abusata del teatro d’opera, all’interno d’una sorta di happening sempre diverso da sera a sera, e per cui è prescritta l’inderogabile presenza dell’autore come direttore e attore.

Ancora, sono firmati Bussotti i balletti Nottetempo e Bergkristall, composizione questa che Giuseppe Sinopoli amava in modo particolare, riuscendo anche a convincere la propria casa discografica a incidere. Mentre il melodramma Nottetempo è la formula del “Bussottioperaballet” in cui diverse forme performative si fondono all’insegna d’un suono inteso come vibrazione interiore dalla forte componente sensuale.

Ma è nella musica da camera, che probabilmente Bussotti scrive pagine destinate a restare: apice il quartetto per archi I semi di Gramsci. I semi sono quelli che il detenuto Gramsci coltivava nel suo “quarto di metro quadro” di terreno del penitenziario, ma nulla v’è di meramente descrittivo in un fluire musicale aspro e zigzagante, da cui sorte un incantevole assolo di violino: la composizione è dedicata al mai abbastanza compianto Quartetto Italiano, e questo assolo fu tagliato su misura per Elisa Pegreffi. Il ritratto che il pennello musicale traccia non è quello d’un povero carcerato tubercolotico, bensì quello d’un tribuno dall’eloquenza fondata per intero sulla forza dell’intelletto.

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