Mercoledì 24 Aprile 2024

Elvis per sempre, la potenza della musica

La morte di Presley, 45 anni fa, fece nascere un mito riletto ora al cinema e in nuove pubblicazioni. Ma lui aveva una sola fede: la sua arte

Migration

di Chiara Di Clemente

Forse è ingiusto ma probabilmente ci voleva, a 45 anni domani dalla sua morte, il film di Baz Luhrmann. Ci voleva per scrollare di dosso, da Elvis, la stratificata iconografica che in tutto questo tempo l’ha sottratto alla vita pulsante delle sue canzoni, della sua arte, e l’ha consegnato a immagini, pupazzi, figurine fin troppo sbiadite, fin troppo cristallizzate in un’unica dimensione. Che poi alla fine è quella del ciccione barcollante e sudato in scena a Las Vegas, dello strafatto invasato a stelle e strisce che brandisce pistole e si offre a Nixon come collaboratore da nominare agente federale (sotto copertura) della narcotici.

L’Elvis di Lurhmann la contiene sì, l’ultima figurina di sé imbarazzante e destrorsa, ma la cosa importante del film è che dà a essa un motivo di esistere, un contesto drammatico in cui muoversi, e acquistare la tridimensionalità dell’essere umano: sembra di stare lì, davanti a lui, dagli esordi da autentico ribelle al declino del leone domato che però non rinuncia, pure morente, all’ultimo ruggito. E sembra di arrivare – col film di Luhrmann, uscito nel giugno scorso – a sfiorare il nucleo del mistero, quello di Elvis, e quello del grande sogno americano: sono le parole dell’orripilante colonnello Parker, interpretato da un Tom Hanks che si fa nemesi grottesca di ogni suo ruolo precedente di perfetto bravo ragazzo, a condurci fin là: "Eravamo soci: eravamo Elvis l’intrattenitore e il Colonnello Parker l’imbonitore".

Parker che aveva studiato fin da piccolo, al circo, l’arte dell’imbonimento, ossia: "Come svuotare il portafoglio di un campagnolo lasciandolo con il volto che è tutto un sorriso. L’attrazione da fiera che ti può portare più soldi – dice ParkerHanks sotto morfina, all’inizio del film, dilaniato dai sensi di colpa per la morte della sua “creatura“ – ha splendidi costumi e quel trucco speciale che dà sensazioni agli spettatori che sono incerti se godersi o meno, ma se le godono. E io sapevo che se avessi trovato un’attrazione simile, allora avrei creato il più grande spettacolo della Terra".

È così, né più né meno, che nasce il mito di Elvis. Nasce perché uno scaltro imbonitore fuorilegge che nasconde sotto le false mostrine l’origine europea di immigrato irregolare e la diserzione dall’Artiglieria costiera alle Hawaii – figura archetipica a simboleggiare le fin troppo fragili radici che affondano nella costruzione dell’impero americano – si imbatte per puro caso in colui che in quel momento, metà anni Cinquanta, è l’ideale "fenomeno da baraccone per i giovani".

Vale a dire un bianco che canta con le irresistibili voce e movenze sexy di un nero, "ritmi neri ma con un tocco di country". D’altronde Elvis – come racconta il film di Luhrmann – è da lì che viene: da una famiglia privata del padre, finito in prigione quando lui era piccolo e che lui stesso da piccolo, immedesimandosi negli amati i supereroi dei fumetti, s’immaginava di salvare; da una famiglia che era stata costretta a trasferirsi, a Tupelo, in un quartiere “black“, con l’adolescente Presley che nella realtà, non nei fumetti, la pace e la salvezza la trovava solo lì, tra il rhytm’n blues (nero) suonato nei bordelli e il gospel (nero) intonato nelle chiese.

Era di questa materia – sensuale e spirituale, irresistibile e per forza disturbante tra i conservatori bianchi razzisti – che era fatta la sua musica, fin dall’esordio. Una sensualità, una sessualità, finalmente esplicita, sfrenata. Una spiritualità tanto profonda quanto fragile dinnanzi agli attacchi più prosaici e terreni – incarnata alla perfezione nel kolossal Elvis dalla figura della madre del Re del rock’n’roll, devota a Dio, fin troppo innamorata del figlio, alcolizzata – da tornare d’attualità oggi, oggetto del libro che il fratellastro di Presley, Billy Stanley, darà alle stampe a ottobre col titolo The Faith of Elvis, e in cui sostiene: "Lui recitava una preghiera ogni volta prima di salire sul palco. Quando gli ho chiesto perché, mi ha risposto: mi calma i nervi, ma voglio anche che Dio mi aiuti a benedire ogni show, a renderlo buono".

Aveva fede in Dio, Elvis. Ma ancora di più aveva fede nella potenza della musica. "La vita mi ha subito insegnato che senza una canzone il giorno non finirebbe: per questo continuo a cantare", dice alla fine del film di Baz l’Elvis vero, non quello interpretato magistralmente dal trentenne Austin Butler.

Era la musica che sola riusciva a farlo volare più veloce della luce – come sognava da piccolo fan dei fumetti – per mettersi in salvo sulla Roccia dell’Eternità. Poi però lo riportava a terra il Colonnello Parker, l’uomo che lo ingabbia – per avidità – nel baraccone milionario ma avvelenato di Las Vegas, nella dipendenza dalle pillole, nell’autodistruzione. "Siamo uguali io e te – dice Parker a Elvis –. Siamo due strambi bambini soli in cerca dell’eternità. Ma la verità è che siamo tutti soli. E che la Roccia dell’Eternità per noi sarà sempre irraggiungibile". Per Elvis sì, lo è stata, irraggiungibile, nella sua breve vita, finita a 42 anni. Ma non lo è né oggi né domani, 45 anni dopo.

è arrivato su WhatsApp

Per ricevere le notizie selezionate dalla redazione in modo semplice e sicuro