Venerdì 19 Aprile 2024

E Cossiga disse: "Le Br stavano vincendo"

Le drammatiche giornate del sequestro Moro nel nuovo libro di Bruno Vespa, dedicato ai ritratti di dodici presidenti fra pubblico e privato

Francesco Cossiga (1928-2010) con Aldo Moro (1916-1978)

Francesco Cossiga (1928-2010) con Aldo Moro (1916-1978)

Esce oggi il libro di Bruno Vespa 'Quirinale - Dodici Presidenti tra pubblico e privato' (Rai Libri, 335 pagine con ampio inserto fotografico, 20 euro). Ecco un’anticipazione del capitolo su Francesco Cossiga.

"Le Br erano a un passo dalla vittoria…"

"Lei mi chiede se Moro poteva essere salvato. No, non credo. A meno che coloro che lo detenevano non avessero capito due cose che non hanno capito". Francesco Cossiga fece una pausa, la mano sinistra accarezzò il pugno destro. Alzò lo sguardo e proseguì: "Innanzitutto non hanno capito che erano a un palmo dalla vittoria". Dalla vittoria? "Sì, dalla vittoria. II 9 maggio del ’78, quando è stato trovato il corpo di Moro in via Caetani, era riunita la direzione democristiana. Se non l’avessi interrotta io dicendo che Moro era stato ucciso, certamente la direzione avrebbe deciso la convocazione del Consiglio nazionale. E il Consiglio nazionale certamente avrebbe modificato la linea seguita fino a quel momento e avrebbe chiesto una sua autonomia rispetto al governo. Io immaginavo una cosa del genere, tanto è vero che al mattino andai in piazza del Gesù senza sapere se sarei rimasto in carica. Ero democristiano e se la Dc avesse deciso di cambiare linea, si sarebbe dovuto cambiare il ministro dell’Interno…"

Era una mattina dell’estate 1993. Cossiga si era dimesso da un anno e per la prima volta dopo quindici anni diceva che le Br che avevano sequestrato Moro stavano per vincere. Lui e io avevamo avuto scontri durissimi tra il ’90 e il ’92, quasi inconcepibili, a ripensarci oggi: il capo dello Stato che litiga col direttore del Tg1…

Ci incontravamo per la prima volta dal giorno delle sue dimissioni, che avevano preceduto di dieci mesi le mie, e il colloquio destinato al mio libro Telecamera con vista (Nuova Eri, 1993) si svolgeva con grande cordialità nel suo studio di senatore a vita a palazzo Giustiniani.

"La seconda cosa che le Brigate Rosse non hanno capito", aggiunse Cossiga, "è come si sarebbe destabilizzato il rapporto tra Dc e Pci. Non dimentichiamoci che le ultime lettere di Moro sono una violenta accusa al Partito comunista e alla Democrazia cristiana. Moro rimprovera alla Dc di aver scambiato l’accordo politico con il Pci per una consonanza ideologica e di aver rinunciato al suo patrimonio umanista e cristiano per far forte l’intransigenza dogmatica e leninista del Partito comunista".

Anche questa era una lettura completamente inedita del sequestro Moro e delle ragioni che tennero unito il “fronte della fermezza”. Ma Cossiga lasciava intuire che si trattava soltanto della punta dell’iceberg e che dopo quindici anni lui non aveva ancora trovato il coraggio di rivelare quanto profondo fosse quel che restava sommerso. "Occorre una lettura attenta delle lettere di Moro per capire tutto questo. Può darsi che un giorno, se avrò il coraggio… A me parlare di queste cose costa una grandissima fatica…"

Cossiga si interruppe e si accarezzò le mani sfiorandole appena, come se avesse delle piaghe. Aggiunse sottovoce: "Guardi queste macchie sulla pelle, guardi i miei capelli bianchi. Tutto questo non mi è venuto per un motivo futile, è frutto di uno stress… Ringrazio Dio di avermi fatto uscire da questa storia con la testa abbastanza equilibrata. Sa, i miei amici di partito tenevano la linea di fermezza. Io li guardavo e pensavo: per voi è facile. Ma io faccio il ministro dell’Interno. Se Moro muore, è colpa mia…"

Già, le lettere. Per tanto tempo Cossiga pensò, come molti, che il presidente della Dc scrivesse sotto dettatura delle Br. Anche quella indirizzata personalmente a lui ("Caro Francesco…") in cui invocava una trattativa per la liberazione. Più tardi si convinse che quelle lettere erano frutto delle convinzioni di Moro: "Io sono un cattolico liberale e resto convinto che lo Stato sia un valore. Lui era un cattolico sociale, di quelli che credono che lo Stato sia una sovrastruttura della società civile. Perciò ha scritto che la dignità dello Stato non valeva l’interesse del suo nipotino Luca…"

Cossiga mi disse di non aver fatto nulla per impedire i contatti tra i rapitori e la famiglia Moro, di escludere qualunque influenza di servizi stranieri (russi o americani) nella gestione dell’affare e di essersi convinto della natura autoctona delle Brigate rosse e della loro provenienza dall’"album di famiglia" del Pci e della sinistra italiana. Si convinse, subito dopo il sequestro, che i brigatisti avrebbero ucciso Moro e restò di ghiaccio quando Ugo Pecchioli, “ministro dell’Interno ombra” del Pci gli disse: "Vivo o morto, per noi Moro è morto".

A più di quarant’anni dal sequestro Moro e a più di dieci dalla scomparsa di Cossiga, sulla vicenda esistono ancora molti punti oscuri che nemmeno l’ultima commissione d’inchiesta conclusa nel 2018 ha saputo chiarire. Certo, lo Stato dimostrò una impreparazione spaventosa e Moro avrebbe dovuto essere salvato dall’imponente – ma impotente – apparato di sicurezza che fu messo in piedi. Ucciso Moro, Cossiga – com’era ovvio – si dimise immediatamente portandosi nella tomba, ventidue anni dopo, un inevitabile senso di colpa e forse anche qualche segreto.

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