Divina Netrebko, alla Scala è rinata una stella

Un mese fa in ospedale con la polmonite, l’altra sera in scena con un recital da ricordare: lei mai così bella, la sua voce mai così magica

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di Elvio Giudici

Il concerto di mercoledì alla Scala, con l’orchestra che sembrava volesse dimostrare a ogni nota quanta voglia abbia di tornare a suonare e pazienza se tutti gli archi (proprio tutti) siano mascherinati lungo l’intera esecuzione; con Riccardo Chailly pure lui mascherinato a confermarsi il miglior direttore che Puccini possa oggi sperare, ma mostrandosi grandissimo anche in Verdi, Cilea, Ponchielli: tutti a far da corona a lei. La Diva. Detesto tale termine, di solito: ma qualche volta (rara, rarissima), è l’unico pertinente.

Perché Anna Netrebko nemmeno un mese fa stava in ospedale con la polmonite da Covid, ma spediva indomita selfie col suo sorriso smagliante a dire "Combatto e porca miseria Vincerò più e meglio del Calaf di Turandot". E difatti eccola qui: compare avvolta in un nuvolone color cremisi e tu pensi vabbè, furbissima a nascondere una tal quale notoria opulenza… Così nella seconda parte ti frega anche di più perché entra inguainata in uno stupendo vestito che è nero davanti e dietro, ma color carne ai lati, sicché i diversamente giovani pensano subito agli anni Sessanta del manifesto celeberrimo – e allora scandalosissimo, Gesù come passano tempo e scandali – del film Metti, una sera a cena, con la Florinda Bolkan sdraiata di profilo dentro un lungo due pezzi nero le cui metà erano tenute assieme da lacci neri che mostravano tutta la sinuosità d’un corpo niente male.

E allora, perbacco: quant’è dimagrita la sublime Anna! Sempre stata bellissima nonostante qualche chiletto in più, con quel viso dove forza, dolcezza, sensualità si fondono irraggiando una comunicativa irresistibile: ma adesso la camminata sinuosa con cui entra ed esce di scena ne fanno una di quelle Divine Creature vagheggiate da certa bassa letteratura anteguerra dei Pitigrilli, Zuccoli, Da Verona.

Una Diva formato M’appendo alle Tende, di quelle che mandano in visibilio certa fauna da loggione d’antan? Ma nemmeno per idea. Lei è talmente e autenticamente Diva, da fregarsene del divismo delle stenterelle.

Fa il suo ingresso in scena con un sorriso che illumina la sala agitando la mano in segno di saluto, e poi apre bocca. Prima dice: "Il Teatro alla Scala è una delle mie case artistiche più amate al mondo e non potrei essere più entusiasta di tornare per questi concerti". Poi canta, e quella stessa non piccola sala pare di colpo angusta, saturata com’è da suoni ampi, stupendi lungo arcate vocali morbidissime e lunghissime perché governate da tecnica e musicalità impeccabili rese però mai fini a se stesse bensì quali mezzi per plasmare fraseggi ovunque personali, modernissimi, rivelatori dell’essenza dei diversi personaggi affrontati. Giacché il fisico è smagrito, sì: ma la voce nient’affatto, anzi s’è fatta alluvionale nell’espandere un registro centrale e grave dalla timbratura eccezionale ma sempre al servizio dell’espressività.

In repertorio una galleria di eroine femminili da Aida a Elisabetta di Valois fino a Gioconda, Adriana Lecouvreur, Butterfly e Manon Lescaut. S’era relativamente in pochi, nella vasta sala del Piermarini, tutti mascherinati e distanziati giacché per l’ennesima volta si ribadisce (a politici sordi forse perché in un teatro non mettono mai piede) come il teatro sia uno dei luoghi più sicuri in questi tempio tristanzuoli. Ma s’è ugualmente fatto un fracasso indiavolato, alla fine, a salutare il carisma d’una Diva di quelle autentiche, ma soprattutto d’una grande, grandissima Artista.

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