Dante, un poeta-filosofo nell’età della fede

Attraversò il “ Saeculum christianum“ superando i confini teologici del suo tempo. Nella Commedia un’anticipazione della modernità

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di Franco Cardini

Dante, homo religiosus. Senza dubbio: ma cerchiamo di non scoprire l’acqua calda. Il giovane Alighieri, innamorato della poesia oltre che di Beatrice, pensava alle rime dei trovieri francesi e dei trovatori provenzali; ma nella società cittadina del suo tempo prevalevano i codici notarili e i libri di conti mercantili. Altrimenti, c’era sempre la teologia: utile anche se non si voleva finir sacerdoti.

Dante frequentò gli studia dei domenicani in Santa Maria Novella dove dominava frate Remigio de’ Girolami e dove gli fu insegnata la filosofia di san Tommaso d’Aquino; e dei francescani di Santa Croce, dove forse per qualche tempo s’imbatté nel mistico “spirituale” Pietro di Giovanni Olivi, che amava Gioacchino da Fiore ed era fautore d’un messaggio minoritico ispirato allo stretto rigore della povertà. Se ne sarebbe ricordato anni dopo, scrivendo quel mirabile canto XI del Paradiso incentrato tutto sulle “nozze mistiche” tra frate Francesco e madonna Povertà. Erano idee pericolose, quelle.

Ormai, per la Chiesa romana, l’era delle crociate si stava chiudendo – l’ultima piazzaforte cristiano-latina oltremare, Acri, sarebbe caduta nel 1291 – ma la Cristianità era ufficialmente scossa dalla paura dei movimenti ereticali.

Nella sostanza, tuttavia, a far paura alla gente più che gli eretici erano i loro persecutori, gli uomini dell’Inquisizione. Ci voleva poco, nell’età di Dante, per finire sul rogo come eretico; e, almeno in teoria, anche come usuraio (ma questo era vero solo fino a un certo punto: altrimenti Firenze sarebbe diventata tutta un falò!).

Saeculum christianum, “età della fede”, questo tempo di Dante! Senza dubbio. Guardate la Divina Commedia: un impianto teologico di enorme chiarezza e solidità, ma per capirla ci vogliono anche la scienza geografica, il diritto, la storia. Tutto si racchiude e si riassume nella fede: eppure tutto è anche lotta, scontro e accanito. Fra cattolici ed eretici, fra teologi aristotelici e teologi platonici, tra religiosi che sostengono che l’usura (quindi il traffico del denaro) è peccato mortale e prelati che concedono a mercanti e finanzieri preziose patenti di legittimazione.

La questione religiosa toccava, come usa accadere in varie epoche e in varie forme, anche quella economica. Bellissima la povertà volontaria, si ripeteva: ma non sarà pericoloso continuare a dire che quello è lo stato perfetto del credente? Non è che a furia di sentirselo dire la gente comincerà a chiedersi perché, allora, la Chiesa è tanto ricca? E, se la povertà volontaria è bella, quella che invece si subisce controvoglia a che specie appartiene?

E perché, se al tempo di Adamo la gente andava nuda e Gesù era povero, nella società cristiana dovevano esserci tante e tanto profonde differenze sociali? Un altro pericolo nasceva dalla stessa disciplina teologica.

La Chiesa temeva gli eretici e li cercava dappertutto: si cominciava a chiedersi se anche certe innocenti superstizioni contadine non potessero nascondere un pericoloso complotto contro la società cristiana costituita, se le povere guaritrici e levatrici di campagna con i loro riti che mischiavano una fede cristiana incolta e le formule magiche degli antichi dei quasi dimenticati non fossero per caso alleate del demonio, così come lo erano – all’estremo opposto della gerarchia intellettuale – astrologi e alchimisti?

Nasceva la “caccia alle streghe”: che sarebbe scoppiata poco più tardi, in pieno Trecento, contemporaneamente con al crisi demografica ed economica delle carestie e della Peste Nera. La “caccia alle streghe”: roba non già del “buio medioevo”, ma ormai quasi nel “luminoso Rinascimento”: “Luminoso” anche perché illuminato dalle fiamme dei roghi? Eppure, non erano queste le vere crepe dell’edificio religioso.

C’era dell’altro: cose più complesse. Già Dante aveva dovuto fare i conti, nel suo capolavoro, con gli eretici “epicurei”, "che l’anima col corpo morta fanno". C’era chi cominciava a non creder più nell’eternità della vita in un Altro Mondo; e un filosofo di fine cultura come Guido Cavalcanti, amico appunto di Dante, si chiedeva se fosse stato possibile sostenere con argomenti filosofici che Dio non esisteva.

La Modernità dietro l’angolo… E c’era ancora di più. Extra Ecclesiam, nulla salus, si diceva. Se non si è cristiani si è dannati in eterno.

Eppure: "... tu dicevi: ’un uom nasce a la riva de I’Indo, e quivi non é chi ragioni di Cristo né chi legga né chi scriva; e tutti i suoi voleri e atti buoni sono quanto ragione umana vede, sanza peccato in vita o in sermoni. Muore non battezzato e senza fede: ov’è questa giustizia che ’l condanna? Ov’è la colpa sua, se ei non crede?" (Paradiso, XIX, 70-78).

Ci si salva anche se non si è cristiani? A chiederselo non è Pascal, non è Kant. È Dante Alighieri.

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