Mercoledì 24 Aprile 2024

Dante a Firenze e l'età d'oro dei mercanti

La città visse al tempo del Poeta la sua grande espansione grazie al fiorino e ai traffici internazionali. Ma non aveva peso politico e militare

Dante e la Divina Commedia nell'affresco di Domenico di Michelino nel Duomo di Firenze

Dante e la Divina Commedia nell'affresco di Domenico di Michelino nel Duomo di Firenze

Durante di Alighiero di Bellincione degli Alighieri, che ormai noi chiamiamo Dante – e tanto nomini nullum par elogium – nacque nel 1265 e morì nel 1321. Ma, quando parliamo in termini storici del “tempo di qualcuno”, intendiamo indicare grosso modo il periodo storico inteso in senso qualificante durante il quale la persona che c’interessa ha vissuto. Molière per esempio ha vissuto al tempo del Re Sole, Mozart tra Maria Teresa e Giuseppe II. Qualcuno ha osservato che sono i grandi protagonisti ad aver creato le grandi età storiche. Ma non sarà piuttosto vero il contrario, cioè che i protagonisti della storia sono tali perché nascono in un momento, in una “circostanza” adeguata.

Napoleone sarebbe riuscito a fare quel che ha fatto se non si fosse trovato più o meno ventenne in una Francia come quella del Direttorio? E quanti Giulio Cesare sono nati, hanno vissuto e sono invecchiati nella declinante Roma del IV secolo senza imbattersi nelle occasioni che hanno fatto grande lui? La questione è forse irrisolvibile. Certo, se dobbiamo parlare dell’età “di Dante” non possiamo certo rifarsi ai suoi due anni di nascita e di morte, che a parte appunto quanto lo riguarda non hanno avuto troppo interesse. Ma le cose cambiano se prendiamo due età ad esse vicine e che hanno davvero segnato il loro tempo: il 1252, quando i banchieri e i mercanti fiorentini si dotarono d’uno strumento creditizio nuovo, il fiorino d’oro, destinato a rivoluzionare economia e finanza di quasi tre secoli, prima della “rivoluzione dei prezzi” del pieno Cinquecento; e il 1333, quando una disastrosa alluvione mise in ginocchio la città che aveva quasi cominciato a riaversi quando fu investita dalla “peste nera” del 1348 che ne ridusse gli abitanti di più della metà. Salvo che poi si riprese.

Perché? Oggi va di moda la geopolitica. Che però non servirebbe certo a spiegare lo splendido destino di Firenze. Ancora ai primi del Duecento, la città era lungi dal primeggiare: un toscano dell’epoca avrebbe puntato su Pisa, su Siena, forse perfino su Lucca piuttosto che su di essa. Era una città sita su un’antica strada romana ormai abbandonata, percorsa da un fiume capriccioso e poco navigabile, lontana dall’arteria del tempo – la Via Francigena che passava molto ad ovest, tra il Pistoiese e la Valdelsa – dominata da un’arcigna e rissosa aristocrazia cavalleresca chiusa nelle sue torri urbane e nelle sue terre circostanti, remota rispetto al mare, del tutto priva di quelle materie prime (la lana e i coloranti) che serviranno per la primaria attività manifatturiera occidentale e ch’essa avrebbe dovuto importare – la prima dall’Inghilterra e dal Maghreb, la seconda dalle lontane Indie – passando attraverso la strettoia del quasi mai amico porto di Pisa.

Ma quello che fece appunto viva e forte Firenze fu la capacità dei suoi imprenditori, che andarono a pescare i preziosi materiali coloranti nel centro dell’Asia, a comprare le lane dall’Inghilterra e dal Maghreb, e a far convergere queste materie prime in una città che, producendo grazie ad esse quelle stoffe di lana che divennero le più pregiate del mondo, nel giro di pochi decenni si dotò – come dicevamo – della prima stabile moneta aurea dell’Occidente, triplicò nel giro di un paio di generazioni il suo livello demografico, riuscì col favore del papa e del re di Francia a divenire una grande potenza economica. Informazione, capacità di cogliere i bisogni del proprio tempo, scelta oculata degli alleati. Questa la Firenze che frattanto, liberatasi dall’egemonia dei bellicosi “magnati”, seppe esprimere un ceto di governo “popolano” affidato a mercanti e agli imprenditori. E primeggiare in tutto.

La Firenze di Dante è anche quella di Giotto e di Arnolfo di Cambio. Quella dei grandi monumenti pubblici laici e religiosi che la fanno bellissima. Una città lungimirante. Ci è caro il ricordo del buon Brunetto Latini che rientra dall’esilio spagnolo con nella bisaccia la traduzione d’un testo mistico musulmano che servirà al suo più illustre allievo come ispirazione per il capolavoro immortale; e poco più tardi ecco gli avventurieri fiorentini, guerrieri e mercanti, in Grecia e nell’Egeo. Aveva ragione Bonifacio VIII a considerare i fiorentini "il quinto elemento dell’universo".

Ma la grandezza finanziaria senza potenza politico-militare cerava una situazione pericolosa; i rapidi arricchimenti avevano generato una spaventosa sete di potere; e le lotte politiche – guelfi e ghibellini, poi magnati e popolani – compromettevano la stabilità del ceto dirigente. Ne seppe qualcosa Dante, cacciato in esilio per colpe non sue (ma davvero e del tutto non sue?). Ma venne la crisi: quella del papato, del quale i mercanti fiorentini erano divenuti i fiduciari economici; e quella del regno di Francia, il grande patron di Firenze, caduto nel vortice della guerra dei Cent’Anni più o meno negli stessi anni dell’alluvione del 1333. Coincidenze, si dice: eppure…  

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