Mercoledì 24 Aprile 2024

Daniela Rambaldi: "E.T., mio fratello. Papà come Geppetto: un artigiano geniale"

Dieci anni fa moriva il mago degli effetti speciali, il ricordo della figlia. "Spielberg lo chiamò a mezzanotte: lui disse subito di sì. E partì da zero. Tutti i bambini del mondo amano ancora l’alieno, è come un amico"

Daniela e Carlo Rambaldi (Ansa)

Daniela e Carlo Rambaldi (Ansa)

Steven Spielberg lo chiamava Geppetto. "Perché mio padre riusciva a progettare e a realizzare tutto con enorme fantasia, unita a una sapienza artigianale che resta impareggiabile", sorride Daniela, figlia di Carlo Rambaldi, pioniere dell’animatronica e straordinario creatore di effetti speciali. Tre volte premio Oscar, Rambaldi (originario di Vigarano Mainarda, nel Ferrarese) è morto il 10 agosto 2012. E proprio 40 anni fa arrivava nelle sale il suo ‘figlio’ più amato, E.T. l’extraterrestre, il tenerissimo piccolo alieno dimenticato sulla Terra, che gli valse un Oscar. Daniela, nata a Roma, cresciuta a Los Angeles, ancora oggi vive fra Italia e California: è vicepresidente della fondazione dedicata al papà.

Che ricordo ha di suo padre? "Fin da piccola mi ha colpito che fosse sempre intento a disegnare. Nella tasca della giacca teneva un blocco e una matita: anche se eravamo fuori a cena, si metteva a schizzare un viso o un meccanismo. Inseguiva le idee".

E le piaceva vederlo creare? "Sì, però da piccola mi incuteva un po’ di timore. Lavorava in un seminterrato a Monteverde, e la mamma a volte mi accompagnava a salutarlo, ma non volevo entrare in quel laboratorio, pieno di manichini strani o teste mozzate. Avevo 5 anni... Mamma poi mi spiegò che era tutto finto".

Poi lui vi portò tutti in America. "Nel 1975 Dino De Laurentiis lo chiamò a Hollywood per il kolossal su King Kong: venne realizzato il gorilla alto 12 metri, oltre ai dettagli come le braccia e il volto. Ogni movimento era studiato nei minimi particolari. Papà rimase lì un anno e noi lo raggiungemmo a Natale. Quando vinse l’Oscar per gli effetti speciali, si convinse che era il momento di fare il salto e trasferirsi a Los Angeles: lì c’erano budget più elevati".

Come nacque E.T.? "Papà aveva già lavorato con Spielberg per Incontri ravvicinati del terzo tipo. Una sera a mezzanotte arrivò una telefonata. “Steven, what’s the matter?“, cosa succede?, chiese papà. Il regista gli spiegò che aveva avviato la produzione sul piccolo extraterrestre ma il personaggio creato dall’équipe Usa non lo convinceva. Voleva che ci lavorasse mio papà. E lo convinse a ripartire da zero, in tempi strettissimi".

Quale fu l’idea vincente? "E.T. aveva una personalità innocente, doveva suscitare affetto, empatia. Mio padre partì dagli occhi, grandi e celesti: si ispirò al nostro gatto himalayano. E poi pensò al collo che si allungava: in questo modo poteva interagire con bambini e ragazzi di diverse altezze. E gli fece il fondoschiena come Paperino".

Lei lo vide prima di Spielberg... "Già (ride). Una sera papà mi chiamò nel suo studio e mi mostrò una scultura di 25 centimetri, in creta grigia, e mi chiese cosa ne pensassi. Gli dissi che a prima vista non mi emozionava tanto, era bruttino, però era molto simpatico. E quello per lui fu fondamentale: se E.T. era simpatico a sua figlia, lo sarebbe stato per tutti i bimbi del mondo".

Perché E.T. continua a essere così amato? "Perché comunica valori importanti oggi ancor più di ieri: amicizia, inclusione, rispetto per il prossimo, protezione per le diversità. E lo colgono soprattutto i bimbi: lo vediamo anche nei laboratori artistici per i più piccoli promossi dalla fondazione".

Com’era la vita a Hollywood? "Mia mamma Bruna organizzava spesso party a cui partecipavano registi e attori. Da Sylvester Stallone a Oliver Stone, Tony Renis, Ornella Muti, Raf Vallone sono stati tutti ospiti da noi. Però mio padre non amava la mondanità: a volte, quando lo invitavano a un evento, mi prendeva con sé, e a una certa ora aveva la scusa giusta per rientrare a casa".

E non parlava l’inglese... "Appena arrivato negli Usa non aveva dimestichezza con la lingua. E allora diceva qualche parola in dialetto ferrarese: il suono era simile, si faceva capire".

Come si sentiva a essere figlia di un papà così famoso? "Ero timida, a scuola a volte lo vivevo con imbarazzo. Quando mi chiedevano quale fosse il mestiere di mio papà, rispondevo genericamente che faceva effetti speciali, giocattoli per il cinema".

Come definirebbe suo papà? "Un vero genio. È stato meraviglioso nutrirmi della sua passione. Tra me e lui c’era una simbiosi speciale. Ci capivamo con uno sguardo. Mi manca. E a volte mi chiedo se l’ho ringraziato abbastanza".

 

 

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