Morto Daniel Johnston, genio formidabile che ispirò Kurt Cobain

Ha dato vita al genere Lo-Fi. “The true love will find you in the end” la sua canzone più famosa

Daniel Johnston durante un'esibizione di qualche anni fa (Alive)

Daniel Johnston durante un'esibizione di qualche anni fa (Alive)

Roma, 12 settembre 2019 - Ci sono degli oggetti feticci che entrano di diritto nella storia di Daniel Johnston, che se ne è andato l’altro giorno a 58 anni. Come il suo registratore Sanyo. Costava 59 dollari all’epoca. E da quel Sanyo iniziò tutto.

Una manciata di canzoni. Autoproduzione allo stato più puro. Un disco “Hi, how are you”, 1983, iconico. Se non altro per la copertina che lui stesso aveva disegnato e che nove anni dopo sarebbe finita su una t-shirt (l’altro oggetto feticcio del Nostro) indossata da Kurt Cobain, in piena era grunge e con i Nirvana già schizzati verso il successo per il loro Nevermind. Venerato Daniel dai grandi della musica che s’inchinavano alla sua genialità. Tom Waits dodici anni fa circa radunò una manciata di colleghi per fare un disco-tributo a Daniel, con lui ancora in vita. Le canzoni di Johnston cantate da altri. Anche da Beck che del lo-fi, low fidelity, la bassa fedeltà come genere, è stato alfiere.

Ma parliamoci chiaro, l’ondata Lo-Fi oltre Oceano (da Sebadoh arrivando perfino ai Pavement) non sarebbe mai esistita se non ci fosse stato lui. Dalla sua cameretta di Sacramento con quel registratore, la chitarra prima, arrivando all’organo poi, Johnston ha dato vita a un genere che sì potrà essere considerato pure a bassa fedeltà, dal punto di vista tecnico, ma è sicuramente ad alta fedeltà a livello di emozioni. In grado di raccontare storie, passioni, il suo rapporto mai semplice con la vita, i suoi demoni interni, le sue crisi di panico. Non si contano le volte che i suoi concerti annunciati venivano poi annullati. Schizofrenico, bipolare, patologicamente parlando, dentro e fuori da istituti psichiatrici.

Da uno di questi lo riprese nel 2003 Mark Linkous, altro eroe tragico di un Novecentesco musicale americano (era il leader degli Sparklehorse, morto poi qualche anno dopo), e con lui firmò un disco che era più che una dichiarazione d’intenti: “Fear yourself”. Genio formidabile Johnston, tanto da far scrivere a un critico americano che era come Van Gogh.

Non solo per il suo bipolarismo ma anche per la sua vena artistica. A tratti poteva sembrare naif, con quel corpaccione e con l’idea che le sue canzoni, proprio all’insegna di quell’autoproduzione, si potessero vendere ancora in cassette, quando i cd stavano già spopolando. E poi suo papà ottantenne come manager e quel rapporto mai pacifico con la fede (è nato da una famiglia cristiano-metodista). Il suo unico sogno, forse la sua unica ambizione, era cantare come i Beatles. “A 19 anni - disse - mi accorsi però che non sapevo cantare. E ci rimasi male”. Ma le canzoni erano l’unica terapia che funzionava con lui. Una vita, la sua, così da film che il regista Jeff Feurzeig un film su di lui lo fece davvero: “The devil and Daniel Johnston”.

Ma il suo testamento è sicuramente la sua canzone più famosa “The true love will find you in the end”. Nemmeno lui, in uno dei suoi stati onirici, avrebbe mai immaginato che il vero amore (infinito) dei suoi ascoltatori e dei tanti cantanti, americani e non, che lo ricordano oggi, l’avrebbe letteralmente travolto dopo la sua morte. E che poi il suo ultimo giorno sia arrivato undici anni dopo quello di David Foster Wallace, è un dettaglio puramente storico-statistico. O solo un puro caso.

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