Quattordici gorilla, quattro oranghi e otto bonobo presenti all'interno dello zoo di San Diego hanno ricevuto una doppia dose di un vaccino sperimentale sviluppato espressamente per difendere dal Covid-19 le grandi scimmie. Una misura resasi necessaria quando, a gennaio di quest'anno, la pandemia di Coronavirus ha iniziato a infettare anche loro e non solamente gli esseri umani. Per ripassare: Covid, certificati i primi casi di Coronavirus tra i gorilla
I gorilla e il coronavirus
Il fatto che il virus SARS-CoV-2 potesse fare ammalare gli animali era cosa già nota e per esempio gli scienziati hanno confermato infezioni, a livello mondiale, nel caso soprattutto dei felini. Le grandi scimmie e in particolare i gorilla hanno però fatto suonare un campanello d'allarme: perché si tratta di una specie a rischio di estinzione, ne sono rimasti meno di cinquemila esemplari allo stato selvaggio, e perché la loro struttura sociale prevede di vivere in famiglie molto unite e questo fa temere che un singolo contagio possa sterminare un intero gruppo. Dopo un anno di pandemia si sa ancora molto poco su come il virus colpisce gli animali e i dati in mano agli scienziati sono pochi e disorganizzati, soprattutto per quanto riguarda le specie che vivono in natura. Da qui l'importanza della collaborazione fra l'azienda farmaceutica veterinaria Zoetis e lo zoo di San Diego, che consente un'osservazione diretta più semplice e un costante monitoraggio medico. Così, quando a gennaio otto gorilla hanno iniziato a manifestare malattie cardiache e polmonari, sono subito scattate misure emergenziali: in breve tempo gli animali sono stati curati (ora stanno bene) e nelle settimane successive le grandi scimmie dello zoo hanno ricevuto il vaccino.La sperimentazione, rischi e sfide
Il ricorso a un vaccino sperimentale solleva questioni etiche di non poco conto, perché lo scopo ultimo è garantire la salute degli animali e al momento non c'è modo di essere certi che la cura risulti efficace e non produca invece una reazione immunitaria inversa. E in ogni caso c'è sempre un margine di rischio con ogni vaccino e per ogni specie: la scienza medica, così come quella veterinaria, è in costante aggiornamento ma sa bene che non si muoverà mai in ambiti da "verità assolute". Un aspetto consolante, per chi deve decidere se e quando trattare le grandi scimmie, è che i vaccini sono sviluppati per uno specifico patogeno, non per una determinata specie. Con le parole di Nadine Lamberski, responsabile della conservazione e della salute della fauna selvatica presso la San Diego Zoo Wildlife Alliance: "È pratica comune utilizzare vaccini per cani e gatti su leoni e tigri, e le scimmie dello zoo sono trattate contro influenza e morbillo facendo ricorso a vaccini per gli umani". La questione resta però complessa perché l'efficacia di un vaccino dipende anche dagli adiuvanti aggiunti, cioè da quelle sostanze che aiutano l'organismo a produrre anticorpi contro un virus e che sono fondamentali per consentire all'organismo ad accettare correttamente il vaccino. E in questo caso l'azione degli adiuvanti varia da specie a specie, rendendo necessarie "ricette" ad hoc. Il rischio però di vedere morire le grandi scimmie dello zoo ha spinto a bruciare le tappe. Sempre Nadine Lamberski, parlando con il National Geographic: "Questa non è la norma e nella mia carriera non ho mai avuto accesso a un vaccino sperimentale in una fase così precoce della sua realizzazione. Ma nel contempo non ho mai avuto un desiderio così grande di utilizzarlo".è arrivato su WhatsApp
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