Venerdì 19 Aprile 2024

Commodore 64. E la vita era un videogame

Nell’estate di quarant’anni aveva inizio l’invasione dei primi computer casalinghi: prezzi abbordabili, grafica e suoni da un’altra dimensione

Commodore 64

Commodore 64

Sullo stereo giravano a ciclo continuo i Talking Heads, David Byrne era lì che ripeteva: Psycho Killer, Qu’est-ce que c’est?: corri, corri, corri lontano... Anche sullo schermo c’era un uomo che correva: i suoi passi rimbombavano su piattaforme di metallo, lui era un agente segreto che si era introdotto nel laboratorio sotterraneo di Elvin Atombender, scienziato cattivo determinato a distruggere l’umanità con una mega bomba atomica. L’agente segreto in realtà ero io: io con le gambe lunghe, i pantaloni e i capelli neri, la faccia e le braccia bianche, allampanato proprio come David Byrne, di corsa, di corsa contro il tempo, per salvare il mondo.

Venivo trasportato tramite un ascensore da una stanza all’altra del laboratorio, ogni stanza doveva essere completamente perlustrata in cerca delle tessere di un mosaico: erano tantissime e bisognava trovarle tutte per ottenere la password del covo di Atombender, e per riuscire a fermarlo. Quindi erano miei quei passi metallici che risuonavano ogni volta più agghiaccianti, più disperati, infrangendo il sottofondo continuo, ossessivo, del pulsare elettrico dei robot-killer a guardia del bunker. Ogni volta che mi scontravo con uno dei robottini (maledetti) morivo fulminato, e l’attimo del trapasso era un gemito da cortocircuito; ogni volta che resuscitavo per poi ricominciare la missione – nessuna arma in tasca, solo l’agilità di salti e capriole – la voce di Atombender mi minacciava: un urlo, un ghigno, la sfida nel suo inglese sincopato, "un altro visitatore... Resta per un po’, resta per sempre".

Era il computer sulla scrivania a parlare, in quei pomeriggi e quelle notti degli anni Ottanta. Era il Commodore 64, messo sul mercato esattamente quarant’anni fa, nell’estate dell’82, con l’Italia che aveva appena vinto i Mondiali e lo Spielberg di E.T. e il Michael Jackson di Thriller che avrebbero di lì a poco cambiato le regole della cinefantascienza e del pop. Anche il Commodore avrebbe fatto la sua rivoluzione: era il primo vero computer che entrava nelle case della gente comune. Meno costoso del precursore Apple II (’77) e dei coevi Pc Ibm e Olivetti M20, e infinitamente più potente: il pur monumentale Apple II si fermava a 48 K (di Ram, memoria), il Commodore arrivava a 64 – come diceva il cognome –, ma in più aveva qualcosa che comunque nessun altro home computer aveva avuto sino ad allora, la capacità inarrivabile a quei tempi di processare suoni e grafica.

Era avanti, il vecchio C64, era lui l’inizio della multimedialità. Era un portale verso un mondo parallelo di immagini in movimento, voci, rumori, esperienze che non se ne stavano rinchiusi eterodiretti in film alla tv o al cinema, ma che dipendevano per la prima volta da chi si metteva lì, in casa sua, in gioco. Un mondo parallelo che aveva i colori squillanti di un futuro possibile, che vibrava di un’estetica inedita, quella che dalla controcultura della demoscene spargeva lampi di coscienza di sé nei videoclip musicali mainstream, nei kolossal hollywoodiani tipo Tron o Wargames.

Attraversando quel portale, si scopriva la felicità di venire invasi da un’ altra dimensione anche solo attraverso un videogame come l’Impossible Mission dell’agente segreto nel bunker di Atombender. Ma c’era molto di più: per assurdo, del Commodore 64 – nonostante il loro impatto continui a smuovere ancora oggi le anime, creando schiere di ragazzi appassionati di retrocomputing – i videogiochi erano in realtà "solo" un sottoprodotto. Il cuore del Commodore stava nell’offerta della prima possibilità democratica di imparare a parlare la sua lingua.

Catalizzati intorno a quel computer c’erano infatti sì gli “hobbisti“ – coloro che si limitavano all’uso ludico dell’amico elettronico – ma c’erano anche schiere di giovani impegnati ad appropriarsi del linguaggio-macchina per tradurlo in simulazioni, in occasioni didattiche. E più te ne volevi appropriare, di quel linguaggio, più era necessario imparare a violarlo, laddove i programmi erano protetti per ragioni commerciali. Gli "hobbisti" stavano davanti al Commodore. Ma a scavargli le viscere, a finire dentro di lui – concentratissimi, monomaniaci, automutanti in uscita dal cyberletterario “stadio larvale“ – erano i 'cracker', i precursori degli hacker. Col Commodore potevi essere contemporaneamente te assieme al gioco, e te contro il codice. Te isolato da questo mondo e risucchiato dentro al pc; te in contatto – solo fisico, non c’era Internet – con chi condivideva gli stessi interessi.

Il mosaico di quel videogame (maledetti robottini) non sono mai riuscita a completarlo e mi dispiace ancora adesso – un po’ – non aver salvato il mondo. Ciononostante, rispetto ai nostri normalissimi telefonini il Commodore 64 aveva 120mila volte meno memoria, 120mila volte meno capacità di calcolo ma di certo aveva un miliardo di emozioni in più: conteneva la promessa concreta del futuro.

 

 

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