Martedì 13 Maggio 2025
REDAZIONE MAGAZINE

Daniel Craig è Queer: con Guadagnino nel mondo della Beat Generation

L’ex James Bond diventa un uomo perso nelle ossessioni di una Città del Messico anni ’50, tra eros, dipendenze e allucinazioni

'Queer', di Luca Guadagnino.

'Queer', di Luca Guadagnino.

Corpi che si sfiorano, sguardi che si ritraggono, desideri che divorano. Luca Guadagnino torna con il suo film più oscuro e alienante, adattando l’opera letteraria ‘Queer’ di William S. Burroughs in un trip cinematografico fatto di sperma, sudore e delirio lisergico. Daniel Craig è méta e spettro di questa discesa: un Bond sfatto e spettinato, naufrago nella Città del Messico anni Cinquanta, sempre un drink in mano e un’idea sbagliata in testa. Un film sul desiderio che non trova mai pace. E nemmeno risposte.

Chi è il protagonista?

Lee è un flâneur maledetto, americano in fuga, espatriato da tutto, soprattutto da se stesso. Craig lo interpreta come mai lo abbiamo visto: ubriaco, impresentabile, dolente, irresistibile nel suo degrado. Accanto a lui, Drew Starkey è Gene: oggetto del desiderio, giovane dai tratti angelici e dagli sbalzi d’umore brucianti. Il loro rapporto? Uno strano equilibrio tra bisogno e indifferenza, tra affetto e disprezzo, tra carezze e schiaffi morali. È Queer nel senso più autentico: contraddittorio, contorto, impossibile da incasellare.

Daniel Craig abbandona Bond per un’ossessione queer

Dimenticate lo smoking stirato e lo sguardo magnetico. Il suo Lee è tutto quello che Bond non è: fragile, dipendente, ossessivo. Barcolla nei bar di Città del Messico come un animale stanco, cerca sesso e redenzione come se fossero la stessa cosa, si accende solo davanti a Gene, che lo illude, lo respinge, lo consuma. Craig si lascia andare a una performance fisica, sporca, piena di ombre. È la sua parte più coraggiosa – e forse la più vera.

Il libro da cui è tratto è il film

Burroughs lo scrisse nei primi anni ’50, ma ‘Queer’ fu pubblicato solo nel 1985. Romanzo sulla tossicodipendenza, l’amore non corrisposto e l’isolamento. Guadagnino non si limita a trasporlo: lo adotta, lo mastica e lo risputa in una forma cinematografica viscerale e allucinata. Lo fa con lo stile di un film-manifesto – tra Fassbinder e Cronenberg, passando per il cut-up, l’ayahuasca, i Nirvana e una Città del Messico in diorama costruita a Cinecittà. Il risultato? Un’esperienza straniante e ipnotica, che confonde il piacere e l’orrore con la stessa delicatezza.