Chiudi gli occhi Gigi, a noi resta il tuo sorriso

Proietti è scomparso ieri, nel giorno in cui avrebbe compiuto 80 anni. La sua arte ha toccato tutti: è stato il mattatore del popolo

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di Massimo Cutò

Son contento di morire ma mi dispiace, mi dispiace di morire ma son contento. È in una battuta di Ettore Petrolini, gran cerimoniere del varietà, l’intimo legato di Gigi Proietti: prendere la vita così, come il palcoscenico insegna. Petrolini ovvero Gastone, "la satira efferata al bell’attore stanco, affranto, compunto, senza orrore di se stesso". Cilindro, frac, guanto a penzoloni, bastone: una maschera dell’antica Roma riveduta e corretta, capace di assumere diverse sembianze a seconda dell’epoca e delle circostanze. "Discendo dalle scale di casa mia", rispondeva il maestro della rivista a chi gli chiedeva se discendesse dalla commedia dell’arte.

Il discepolo Proietti aveva gli stessi toni: voce dell’Urbe, espressione della più pura romanità e al tempo stesso innovatore modernissimo e poliglotta – vedi la parodia dello chansonnier francese e il finto attore scespiriano. Ha cavalcato i classici ritagliandoli su di sé, adattati a un corpo e a un volto che erano già spettacolo.

Il meglio lo dava da solo, nei monologhi memorabili sulle assi del teatro: one man show capace di ipnotizzare la platea e farla impazzire di risate. Bastava dicesse A me gli occhi, please – sotto il tendone o sulle assi dell’Olimpico: quattro edizioni e mezzo milione di spettatori – e il gioco era fatto. Presenza scenica, tempi recitativi: aveva tutto. E tutto sapeva fare: attore, cantante, ballerino, regista, barzellettiere, musicista, doppiatore, cabarettista. E soprattutto magistrale affabulatore. Un mago, un incantatore di serpenti, un mattatore che prendeva e dava.

Ha preso da Gassman e Carmelo Bene – li imitava entrambi alla perfezione – e ha dato lezioni a un manipolo di allievi: Insinna, Brignano, Cirilli, Laganà, Wertmuller, Francesca Reggiani, Chiara Noschese e tanti altri ancora. Un uomo generoso e accogliente. Finito lo spettacolo, invitava la compagnia a mangiare a casa sua e andava avanti con chitarra e canzoni per tutta la notte.

Non era figlio d’arte, era figlio del popolo. Un genio semplice come la sua biografia testimonia: "L’odore della povertà mista a quella del sugo della domenica, i richiami delle mamme ai discoli che non tornano a cena, l’allegria irrecuperabile del mercato, le chiacchiere sui marciapiedi: come li spieghi a chi non c’era?". Tifosissimo della Roma, idolo di Trastevere, è stato l’identità vivente della città eterna – fra Belli, Trilussa e Francesco Totti – trasformata in messaggio universale. Tradizione e leggerezza, un mix straordinario che l’Italia intera ha amato. Ha frequentato Cobelli e Roberto Lerici, recitato gli aforismi di Flaiano e Arbasino. Ha cantato a Sanremo, ha scherzato con Arbore, ha inciso la sigla del Processo di Biscardi. I suoi cavalli di battaglia, il ghigno, gli sketch, i tormentoni sono scolpiti nella memoria collettiva. Impossibile scegliere in un repertorio che è il baule senza fondo di Kean.

"Rifarei tutto, anche quello che non è venuto bene", confidava con la modestia dei bravissimi. E aggiungeva: "Noi attori abbiamo il privilegio di poter continuare fino alla morte i nostri giochi d’infanzia, che nel teatro si replicano ogni sera". Anche l’uscita di scena è un segno da protagonista assoluto. Il sipario calato nel giorno del compleanno sa di beffa alla signora in nero, invitata senza averne paura alla festa finale. Proietti il trasformista che cita Leopoldo Fregoli, l’altro maestro interpretato in televisione nel frullatore di 75 personaggi: sono un po’ stanco di me sempre la stessa vitaccia qualche volta mi cambio la faccia ma la vita rimane com’è.

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