Che roba Contessa: la canzone politica

L’inno del Sessantotto fu composto due anni prima, nel ’66, dopo l’assalto (con morto) alla Sapienza. La lunga stagione dei brani di protesta

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di Matteo Massi

Non era proprio la rivolta permanente, per cantarla alla Guccini, anche se sembrava che fosse così. "Che roba Contessa, all’industria di Aldo hanno fatto uno sciopero quei quattro ignoranti, volevano avere i salari aumentati. Gridavano, pensi, di essere sfruttati". È l’inno del Sessantotto italiano Contessa, anche se quando esce per i Dischi del Sole ha già due anni. Paolo Pietrangeli la compone nel 1966. Era stato appena ucciso Paolo Rossi: quello che "era un ragazzo come noi" cantato da Antonello Venditti in Giulio Cesare, da non confondere – come fecero in molti – con il Pablito mundial. Pietrangeli scrive quella canzone a ridosso degli scontri della Sapienza, tra neofascisti e sinistra, in cui muore Paolo Rossi, studente diciannovenne, di simpatie socialiste, candidato nelle liste dei Goliardi. Le molotov sarebbero arrivate qualche anno dopo, allora ci si picchiava ancora a mani nude.

Da Roma a Milano, proprio in quegli anni va affermandosi una nuova etichetta discografica che affonda le sue radici nel passato. I Dischi del Sole sono la fucina di quella che sarà la canzone politica (e di protesta) italiana. Qualcosa di completamente diverso dal cantautorato “impegnato“.

La strada dei Dischi del Sole s’incrocia con quella del Nuovo Canzoniere Italiano, un gruppo impegnato nella ricerca e nel recupero dei canti tradizionali di protesta. Così Giovanna Daffini che forse del Nuovo Canzoniere Italiano è il volto e la voce più conosciuta, da ex mondina, riporta alla luce Bella ciao, cantata nelle risaie, ma anche una manciata di canzoni di protesta, anche dell’immediato Dopoguerra, come Vi ricordate quel 18 aprile, canzone composta all’indomani della sconfitta elettorale del Fronte Popolare alle elezioni del 1948, in cui si cita "quel Mario Scelba e la sua Celere". A proseguire nel solco della Daffini è un’altra Giovanna: Giovanna Marini (seconda voce di Contessa) che recupera la tradizione anche dei canti popolari, gli stessi “celebrati“ dalla Daffini che vengono direttamente dalle risaie e dal duro lavoro delle mondine, dai sogni spezzati, immortalati nel capolavoro cinematografico del neorealismo Riso amaro di De Santis, con Silvana Mangano che tra un fotoromanzo e un momento di riposo, sogna un’altra vita. Saluteremo il signor padrone e Sciur padrun sono pezzi che raccontano quell’epoca.

Questa è la base culturale dei Dischi del Sole cui si aggiunge il presente “cantato“ da Pietrangeli con Contessa e dal giornalista-scrittore Ivan Della Mea. Che usa in El Gatt, nonostante sia un toscano (di Lucca) emigrato al Nord,il dialetto milanese e perfino I Gufi riprenderanno questa canzone. Ma al di là della musica, composta spesso in forma di ballata, sono le parole che rappresentano più che lo spirito, il conflitto del tempo: sono taglienti, inneggiano alla rivolta o alla rivoluzione. In O cara moglie Della Mea canta: "Quando la lotta è di tutti per tutti, il tuo padrone, lo sai, cederà;se invece vince è perché i crumiri gli dan la forza che lui non ha".

Di questa manciata di canzoni, quella che resisterà negli anni sarà proprio Contessa di Pietrangeli, riproposta in coro ancora in molti cortei, nonostante che, parafrasandola, molti operai hanno avuto il figlio dottore.

Nel frattempo sono state fatte anche cover di quella canzone, una su tutte quella firmata dai Modena City Ramblers nel loro album di debutto Riportando tutto a casa, che metteva assieme Bella ciao e appunto Contessa, agli inizi degli anni Novanta, nel pieno degli anni berlusconiani. E ai concerti del gruppo modenese, continuavano a cantarla tutti, alzando ancora il pugno al cielo come trent’anni prima. Nostalgici sicuramente, sta di fatto che la canzone politica (e di protesta) ha raccontato un’Italia in piena trasformazione: nel Dopoguerra, subito dopo il boom, durante gli anni di piombo.

La stessa Giovanna Marini, nel 1972, scrive di getto I treni per Reggio Calabria, proprio nei giorni in cui Ciccio Franco a Sbarre portava avanti la protesta, dall’estrema destra, al grido di "Boia chi molla", perché Reggio fosse riconosciuta come capoluogo della Calabria, al posto di Catanzaro. Un archivio che, grazie anche all’Istituto Ernesto De Martino (intitolato all’antropologo) definito "un’officina della memoria e della storia", non ha smesso di vivere. A inizio del nuovo Millennio, con l’aiuto proprio di Giovanna Marini, Francesco De Gregori riprende in mano quelle canzoni, provando un po’ a modernizzarle. Esce così Il fischio del vapore. Ma il fischio e il vapore, ormai, si sentivano solo in lontananza.

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