C’era una volta Tarantino: la Palma (poco) d’oro

Da anni Cannes non porta alla ribalta autori e linguaggi cinematografici nuovi. Dalle giurie alla ricerca di pubblicità: le ragioni del declino

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di Andrea Martini

Se nell’immediato la Palma d’oro assegnata a Ruben Ostlund con Triangle of sadness (a cinque anni dalla precedente ottenuta con The square) ha sorpreso lasciando interdetti, il giorno dopo non si può lasciare al solo stupore la risposta. Anche se proprio quest’anno la presidenza di Vincent Lindon lasciava sperare in un giudizio assennato, si è capito da tempo che la Palma viene trattata dalle giurie senza quell’aura di cui un tempo il vincitore poteva poi vantarsi.

Basta pensare allo scorso anno quando a essere laureato fu l’horror Titane, firmato da Julia Ducournau di cui sarà difficile sentire il nome in futuro, quando in competizione vi era, tra i tanti, lo stupefacente Drive My Car di Ryūsuke Hamaguchi (Oscar 2021).

Non è sempre stato così. C’era una volta la Palma. Premio ambitissimo secondo solo all’Oscar, capace di portare alla ribalta autori nuovi, nuovi linguaggi. Vi sono state Palme che hanno aperto la strada a giovani autori e altre che hanno innovato le forme. Sfogliando a caso l’album: una prima terzina consecutiva. ’76 Taxi Driver di Martin Scorsese, 77 Padre Padrone dei fratelli Taviani (tratto dal romanzo di Gavino Ledda), 78 Apocalypse Now di Francis Ford Coppola.

Non importa essere cinefili appassionati o storici del cinema per ricordare questi titoli. Chi non si sovviene del monologo allo specchio “ma dici a me” di Robert De Niro?

Una seconda terzina ’89 Sesso bugie e videotape di Steven Sodenbergh, ’90 Cuore selvaggio di David Lynch,’91 Barton Fink di Ethan e Joel Coen. Scoperte memorabili come Lynch e i fratelli Coen. Se il festival finiva con questi titoli saliva l’entusiasmo e forse ti sentivi anche più giovane. Ancora tre anni: ’92 Addio mia concubina di Chen Kaige, ’93 Lezioni di piano di Jane Campion, ’94 Pulp Fiction di Quentin Tarantino. Il sipario sollevato sul cinema cinese, la prima volta di una donna – e che regista sarà la Campion – e la scoperta di Tarantino, un mito a venire.

Tutto cambia e non si può sempre fare l’elogio dei tempi andati tuttavia non ci si può rassegnare alla moda di oggi.

Anche perché il fenomeno non riguarda solo la Palma: se si osservano gli annuari della Mostra o della Biennale non è che a Venezia o a Berlino ci sia comportati molto diversamente. Le cose vanno meglio al Lido da quando Hollywood ha messo le tende.

Le ragioni del declino sono tante e non coincidono obbligatoriamente con la perdita dell’appeal del cinema in chiave di fenomeno culturalsociale e di spettatori. Troppo spesso la composizione delle giurie segue la convenienza del glamour o delle parentele produttive. Con la conseguenza che essere giurato non responsabilizza più: si segue la convenienza momentanea. Sono lontani i tempi in cui i presidenti di giuria a Cannes si chiamavano Jean Cocteau o Tennessee Williams.

La perdita di personalità dei direttori ha un ruolo; talvolta poteva accadere che non si suggerisse un premio ma solo lo si sconsigliasse. Infine, il desiderio di pubblicità: se la scelta è imprevista e contestata si fa più notizia e le star hanno sempre bisogno di essere in primo piano. Non ultima l’umana amicizia. Tre mesi fa Claire Denis era in Concorso a Berlino con un film di cui era protagonista Vincent Lindon; poteva rimanere senza premio ieri sera?

Molto cambierà l’anno prossimo. Alla presidenza è stata chiamata Madame Iris Knobloch. Viene dalla Warner e ha intenzione di cambiare molto. A partire dalle porte spalancate alle sorelle dello streaming, Netflix in primis. Cambieranno anche le giurie?

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