Mercoledì 24 Aprile 2024

Castellari: come nei western anch'io usavo la pistola, Tarantino mi chiama ancora maestro

I ricordi del regista: negli anni Settanta giravo armato e dicevano che fossi di destra, ma mi applaudivano anche alla Casa del Popolo. "Il mio mito resta Peckinpah del 'Mucchio Selvaggio', ero emozionato quando lo incontrai, ma era ubriaco fradicio e non mi calcolò"

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Ha la voce ridente Enzo G. Castellari, regista cult del cinema di genere italiano, idolatrato da Quentin Tarantino, che si è ispirato a lui per Bastardi senza gloria. Ha la voce ridente, nonostante gli 82 anni e l’isolamento in casa. Guarda Roma dal terrazzo e ha un po’ di tempo per sciorinare i ricordi di una carriera lunga, densa, e che non intende affatto come conclusa.

Scattiamo idealmente una serie di fotografie di volti con cui ha lavorato. Cominciamo dal suo attore-feticcio, quello con cui ha lavorato di più: Franco Nero.

"E pensare che non doveva esserci lui, nei miei film. Quando iniziammo il genere del ‘poliziottesco’, con La polizia incrimina, la legge assolve, per il nostro commissario di ferro cercavo un volto conosciuto in tutto il mondo. E pensai a Mark Spitz".

Il campione di nuoto?

"Esatto. Aveva vinto sette ori alle Olimpiadi 1972, un fenomeno mai visto nello sport. Un bel tipo, con un paio di baffoni da duro. Si era ritirato dallo sport. Provammo, ma rifiutò. Allora mi ricordai che la mia più cara amica era la parrucchiera personale di Franco. Le chiesi di aiutarmi. Da allora, non so quante volte abbiamo lavorato insieme".

Ci furono mai momenti di rischio sul set?

"Franco usava pochissimo le controfigure, tutte le corse e le scene ‘fisiche’ le faceva lui. E una volta rischiò di morire. Ne Il cittadino si ribella veniva inseguito da una Mustang in un terreno accidentato. Franco correva all’impazzata, la macchina dietro: a un certo punto si sloga una caviglia, cade e l’auto gli va addosso. Lui salta sul cofano e continua a correre. Ma poteva finire malissimo".

Un altro mito. Bud Spencer. Con lui girò sei episodi della serie Detective Extralarge, nel 1991, a Miami. Cosa ricorda?

"Ricordo un attore colto, preparato, e anche modesto. Non si riteneva un grande attore: ‘sono un personaggio, non un attore’, diceva di sé. E invece aveva presenza, carisma, simpatia, si faceva amare".

Il suo mito fra i registi?

"Sam Peckinpah, quello del Mucchio selvaggio. Quando venne a Roma per girare con Fabio Testi, feci di tutto per incontrarlo. Andai, emozionatissimo, sperando di fare una lunga chiacchierata con lui. Ma era ubriaco fradicio, e strafatto di chissà che cosa. Non era possibile comunicare. Che amarezza".

Lei è un regista di film "di genere". Ma amava anche i maestri del cinema d’autore?

"Sembrerà impossibile, ma fra i miei registi preferiti c’è Bergman. In Keoma, la scena in cui appare la Morte è ripresa dal Settimo sigillo di Bergman".

Ha girato tanti western duri, scabri, spettacolari. Qual è il fascino del western, per lei?

"Il western è bello perché è semplice: ci sono buoni e cattivi, eroi e vigliacchi. Grandi spazi e cavalli. Poi, basta cambiare i cavalli con le Giulia Alfa Romeo, e hai il poliziottesco!". (ride)

Politicamente, l’hanno sempre etichettata come regista "macho", e di destra. Quanto c’è di vero?

"Le dico solo una cosa: amavo mio nonno Terenzio, che aveva dietro la porta di casa un’enorme foto di Giacomo Matteotti, il segretario del Partito socialista massacrato dai fascisti nel 1922. Beh, per via di quel manifesto, mio nonno fu preso da una banda di fascisti, alla fine della Seconda guerra mondiale, e picchiato fino alla morte. Posso essere fascista io? I miei film dicono che, se vieni massacrato, umiliato, minacciato, alla fine ti ribelli. Ma sono stato applaudito anche nelle Case del popolo".

Lei però, negli anni ’70, non era propriamente un pacifista. Girava con una pistola.

"In quegli anni, purtroppo, era comune. Quando abbracciavi un amico, spesso sentivi qualcosa di ingombrante, nella giacca, sotto l’ascella. Era la pistola. Io, nella megalomania del giovane regista di successo, mi ero comprato una Rolls Royce. Una sera tardi, in un vicolo, trovo tre giovanotti seduti sopra, con aria di sfida. ‘Aoh, c’hai a Rolls!’ e ridono. ‘Sì, però ho anche questa’, e tiro fuori la pistola. ’Annamose, va’…’, e se ne vanno via. Ma senza pistola, non so come sarebbe andata a finire. Un’altra volta trovo uno che la stava rubando. Gli ho puntato la pistola alla nuca. È scappato, facendosela addosso. Non metaforicamente".

Gli anni ’70 li ha raccontati in maniera violenta nei suoi film.

"Erano anni violenti. Quanto più cruenta inventavi una scena, tanto era più ‘gusta’. Poi la cronaca, il giorno dopo, ti diceva che eri stato persino timido".

Tarantino è uno dei suoi fan più sfegatati. Cosa è accaduto quando vi siete incontrati?

"È stato imbarazzante: Tarantino che mi urla ‘Maestro!’ e mi abbraccia. E poi mi invita a Los Angeles: all’aeroporto c’è una Limousine per me, e poi una proiezione di gala del mio film Quel maledetto treno blindato con tutta Hollywood. I grandi che non avevo conosciuto mai, li ho conosciuti tutti quel giorno".

L’attore hollywoodiano con cui avrebbe voluto lavorare?

"Stavo per lavorare con Robert Redford. Ci conoscemmo negli anni ’70, a una festa a Los Angeles. Trovammo un terreno comune di conversazione, perché aveva studiato Belle arti a Firenze, era innamorato dell’arte italiana. Quando dovevo fare Sette Winchester, il mio primo film, mi ricordai di quel ragazzo americano, bellissimo, biondo. Sarebbe venuto a lavorare per 30mila dollari, una sciocchezza. Ma scelsero un altro, all’epoca famoso per una serie tv uscita anche in Italia. E addio Redford".

Ha sfiorato altri divi?

"L’incontro più intenso è stato con Paul Newman. Volevo girare con lui e andai a Los Angeles: mi ha invitato a casa sua, e sono stato tre giorni con lui studiando la sceneggiatura. Stava nascendo una cosa bellissima, ma non siamo mai riusciti a organizzarla. Lo rimpiango da morire!".

A 82 anni, come si tiene in forma?

"Non bevo, non fumo, sto attento al colesterolo. A cena mangio sempre salmone, possibilmente crudo. Lo vado a prendere giù, dal giapponese, e me lo porto a casa. Guardo Roma dal terrazzo, disegno e dipingo, in fondo stare a casa non mi pesa. Mi pesa il dolore della gente, e l’ansia che ci prende tutti".

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