Giovedì 18 Aprile 2024

Carissima mamma, le tenere lettere di Gramsci

Il lato privato dell’intellettuale e politico negli scritti dal carcere alla madre. "Da sempre il tuo paradiso è nel mio cuore"

Migration

di Lorenzo Guadagnucci

"Carissima mamma", scrive il prigioniero, "l’anno scorso, per le gravi condizioni di salute in cui mi trovavo in questi giorni, non mi fu impossibile di inviarti gli auguri per il tuo onomastico. Non voglio che anche quest’anno trascorra senza ricordarti la mia grande tenerezza". È l’8 marzo 1934 e Antonio Gramsci scriva da Formia all’amata madre Giuseppina. Non sa che la donna è morta più di un anno prima, nel dicembre 1932. È l’estremo inconsapevole saluto di un figlio devotissimo a una madre lontana. Gramsci l’intellettuale, il politico, il rivoluzionario era legatissimo a quella donna, di cui ammirava la tenacia e la forza d’animo, dimostrate lungo un’esistenza difficile.

Giuseppina Marcias, nata nel 1861 a Ghilarza in una buona famiglia (padre esattore fiscale, madre figlia di notaio), rimase orfana da bambina e fu cresciuta dallo zio Salvatore, che però ne sperperò l’eredità. Ebbe sette figli (Antonio era il quarto) dal marito Francesco, che nel 1898 fu arrestato e condannato a oltre 5 anni di prigione per peculato, concussione e falso (era gerente dell’Ufficio del registro). Giuseppina si ritrovò sola coi figli da crescere e il piccolo Antonio da curare, affetto com’era da una tubercolosi ossea, una malattia che rese gracile e deforme il futuro capo dei comunisti italiani.

La mamma fu un costante punto di riferimento per Antonio, soprattutto a partire dal 1926, quando si aprirono per lui le porte delle carceri fasciste. Antonio si rivolse a lei appena gli fu permesso di scrivere, una dozzina di giorni dopo l’arresto, avvenuto l’8 novembre 1926: "Carissima mamma, ho pensato molto a te in questi giorni. Ho pensato ai nuovi dolori che stavo per darti, alla tua età e dopo tutte le sofferenze che hai passato". È l’inizio di un epistolario che costituisce la parte più toccante di un libro di per sé commovente, Le lettere dal carcere di Antonio Gramsci (pubblicate da Einaudi), uno dei testi più significativi del ‘900 letterario italiano.

Madre e figlio si scrivono con regolarità. Lui la prepara al peggio mentre il processo incombe, la tiene informata sui nipotini esiliati in Russia e sente di doverla rassicurare sulle proprie condizioni di salute. Giuseppina sa quanto sia fragile quel figlio. Il 28 marzo 1928, a processo ancora da celebrare, scrive una supplica a Benito Mussolini: "Per la memoria santa della sua mamma, le rivolgo una ultima preghiera, risparmi al mio cuore crudelmente ferito, il leggere sul giornale la condanna del mio figlio Antonio Gramsci, ex deputato comunista, non le chiedo di essere graziato perché se male ha fatto deve essere punito, ma che venga rimandato al confino come prima lo era".

Gramsci viene condannato a più di vent’anni di galera, come aveva anticipato alla madre: "Non preoccuparti e non spaventarti qualsiasi condanna mi diano". Il pm al processo aveva detto: "Per vent’anni, dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare". Non sarà così. Gramsci in carcere scriverà i suoi Quaderni, divenuti un classico della letteratura politica, tradotti in tutto il mondo.

Ma la vità da carcerato per Antonio sarà un tormento. Debole e ammalato, non viene curato. Lui cerca sempre di nascondere alla madre le sue reali condizioni di salute, almeno fino al 1930, quando le scrive alla vigilia di Natale e ammette qualcosa: "È il quarto Natale che passo in carcere. Sono invecchiato di quattro anni, ho molti capelli bianchi, ho perduto i denti, non rido di gusto come una volta"...

Antonio nelle lettere cerca la massima confidenza con la madre: le chiede notizie dei parenti, dà consigli e quasi ordini su come crescere Edma, la figlia dello scapestrato fratello Gennaro (Nannaro) affidata ai nonni a Ghilarza, vuole sapere tutto della gente di paese. Usa spesso il sardo. "Sono sicuro che ci rivedremo ancora", le scrive in una lettera, "tutti assieme, figli, nipoti e, forse, chissà, pronipoti, e faremo un grandissimo pranzo con kulurzones e pardulas e zippulas e pippias di zuccurru e figu sigada". Non ci sarà invece nessun pranzo, nessun incontro.

Il testamento filiale è in una lettera del 1931 dal carcere di Turi: "Poiché tutti i ricordi che noi abbiamo di te sono di bontà e di forza e tu hai dato le tue forze per tirarci su, ciò significa che tu sei già da allora, nell’unico paradiso reale che esista, che per una madre penso sia il cuore dei suoi figli".

è arrivato su WhatsApp

Per ricevere le notizie selezionate dalla redazione in modo semplice e sicuro