Mercoledì 24 Aprile 2024

Capriolo in salsa Pop Art: le ricette di Warhol

All’asta il piccolo libro del ’59 in cui il maestro americano illustra le invenzioni culinarie di Suzie Frankfurt. Tra provocazione e parodia

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di Matteo Massi

C’è un piccolo mondo antico di Andy Warhol. Un mondo che a New York univa la casa che condivideva con la madre Julia, la pasticceria dell’hotel Plaza, il Café Nicholson e i tavolini della gelateria Serendipity. Una gelateria che, a dir la verità, assomigliava più a una galleria d’arte.

All’epoca Warhol mangiava solo dolci, soprattutto cioccolata svizzera al Plaza. Ma è alla Serendipity che dà appuntamento a Suzie Frankfurt, decoratrice d’interni, ed è lì che nasce l’idea di creare un ricettario. Dopo che la stessa Frankfurt aveva visitato una sua mostra a Manhattan, incentrata interamente su fiori e farfalle, ed era rimasta colpita dalle illustrazioni di Warhol.

Quel ricettario, ora, sembra valere oro. Otto giorni d’asta, fino al 30 marzo, alla Bonhams di New York per una copia delle 34 stampate (un esemplare è conservato alla Biblioteca di Firenze). Lì dentro c’è il mondo antico di Warhol – che all’epoca era art director della casa editrice Doubleday e realizzava illustrazioni per libri per bambini – ma anche un po’ le fondamenta di quello a venire.

È il 1959 e la Factory sarebbe nata soltanto tre anni dopo. Warhol non si dedica ancora alla serigrafia, ma con la Frankfurt dà una vita a uno spassoso ricettario che si prende poco sul serio e prova a oltraggiare l’alta cucina, soprattutto quei volumi francesi che cominciano ad apparire anche nelle case degli americani e che vengono considerati delle bibbie dagli sciovinisti parigini. Non ci sono ancora gli hamburger come (sua) ossessione a riempire le pagine di questo libro autoprodotto. Ma ci sono diciotto litografie e il corsivo stentato della mamma Julia, denso anche di errori ortografici. Intenzionali, si dirà poi. A colorare quei bozzetti che s’animano ci sono quattro scolari che abitano sopra la casa dei Warhol, a rilegarli i rabbini del quartiere.

Il titolo di quest’autoproduzione – che anticipa le modalità d’azione culturale della Factory, anche dal punto di vista del collettivo estemporaneo che si mette all’opera – è Wild Raspberries. Il riferimento è abbastanza alto, occorre sostituire le fragole con i lamponi ed ecco l’origine: il film di due anni prima, 1957, di Ingmar Bergman. Ma Warhol in questo rimando tra alto e basso ci sguazza. E ci sguazzerà ancora per parecchio. Come scrisse Tommaso Labranca in Andy Warhol era un coatto, a metà degli anni Novanta, con una delle più felici osservazioni (e forse anche critiche): "Non avendo un passato storico a cui attaccarsi, si è attaccato a un passato di verdure".

Il cibo torna nella produzione di Warhol, perché è l’unità di misura della società dei consumi. Che sia la Campbell soup ripetuta all’infinito o l’hamburger di McDonald’s che vale come una cartolina che segna il confine tra i due mondi, Occidente e Oriente ("La cosa più bella di Tokyo è McDonald’s. La cosa più bella di Stoccolma è McDonald’s. La cosa più bella di Firenze è McDonald’s. A Pechino e a Mosca non c’è ancora niente di bello"), o la banana sbucciabile maliziosa e seducente sulla copertina dell’album dei Velvet Underground, poco importa.

In questo libro – il cui prezzo oscilla ora tra i 30mila e i 50mila dollari all’asta – più che la provocazione c’è l’aria sbarazzina di una parodia. Un libello che voleva essere un regalo singolare e anche stravagante per amici e clienti. E così nasce l’omelette Greta Garbo, unica (vera) raccomandazione per la ricetta: "Da mangiare sempre da solo in una stanza illuminata da candele". O gli ingredienti per il capriolo scottato: "Prendete una sella di capriolo, arrostitela e poi agitatela nella padella con due bacche di ginepro. È importante notare che il capriolo a cui si è sparato in un’imboscata è infinitamente meglio del capriolo ucciso dopo un inseguimento. Tienilo a mente durante la tua prossima battuta di caccia".

Un divertissement da sfogliare lentamente e guardare. E quella domanda che, dopo tutto e dopo la sbornia per la pop art, rimane: ma Warhol era un genio o solo l’uomo giusto nel posto e nel momento giusto?

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