di Giovanni Bogani Cannes, il giorno dopo. La Palma d’Oro della giuria guidata dal primo presidente afroamericano della storia del Festival, Spike Lee, è andata a un film violento, brutale. Titane è diretto dalla francese Julia Ducournau: è la seconda donna a vincere una Palma d’Oro, dopo Jane Campion con Lezioni di piano. Il suo Titane è un horror nel quale una ragazza con danni cerebrali e una placca di titanio nella testa diventa una serial killer, con bisogno di amore paterno. Uccide il ragazzo che tenta un approccio con lei infilandogli una pinza per capelli nel cervello, uccide allo stesso modo una ragazza con la quale ha una relazione lesbica. In un momento di estasi alla Cronenberg fa l’amore con un’automobile che va su e giù, e ne resta come ingravidata, perdendo dai seni gonfi, invece che latte, benzina. Per sembrare un ragazzo, si spacca il naso da sola, in un bagno pubblico, sbattendosi la testa più volte contro il lavandino. Poi si finge un ragazzo, il figlio scomparso del vigile del fuoco Vincent Lindon, tanto contento del ritrovamento da non chiedere neppure un test del Dna. Il verdetto di Spike Lee e soci ha tutta l’aria di essere fintamente moderno: Cronenberg e Lynch hanno esplorato i temi di Titane prima, e meglio. Le tematiche relative alla fluidità di genere non sembrano, qui, sincere, ma strumentali: buone per sconvolgere lo spettatore quel tanto che basta per farlo sentire alla moda. La regista, nel discorso di ringraziamento, è stata ben attenta a pronunciare le parole "diversità" e "inclusività", nuovi mantra di ogni salmo da applaudire. Alle proiezioni stampa, però, in molti ridevano, e non perché il film sia una commedia. E lascia perplessi come Vincent Lindon passi facilmente sopra al fatto che suo "figlio" sia palesemente una femmina. Ma, come ...
© Riproduzione riservata