Brunori Sas: "Che meraviglia la normalità dei concerti"

Il cantautore, in tour fra palazzetti e spazi naturali, si racconta e ci racconta il piacere del ritorno in mezzo al pubblico, la paternità, il gusto della fatica

Dario Brunori, in arte Brunori Sas, è tornato a suonare dal vivo dopo la pausa forzata dei live nel periodo pandemico. Il suo tour indoor ha collezionato un sold-out dopo l’altro e i concerti estivi che lo stanno portando in giro per l’Italia assomigliano a una grande festa in cui entusiasmo e ritrovata serenità sembrano essere le parole d’ordine.Lo abbiamo intervistato dopo la sua partecipazione al No Borders Music Festival 2022 che lo ha visto esibirsi per la terza volta con la sua storica band, di fronte a un pubblico caloroso e affezionato, immerso nello scenario da sogno dei laghi di Fusine.Prima di tutto: com’è andata al No Borders Music Festival? Ormai sono un habitué del No Borders Music Festival. C’è un grandissimo affetto che mi lega alle persone che popolano questi luoghi straordinari e che organizzano questa manifestazione. È il terzo anno che mi ospitano e la mia attitudine è diventata molto affine all’attitudine montanara. Infatti, stilando la scaletta per questo concerto, mi sono reso conto di quante volte compaia la montagna nelle mie canzoni, quindi in maniera più o meno inconsapevole, è diventato un luogo a me familiare. Questo festival per me è speciale perché, già a partire dal nome, contiene un principio cardine che da sempre ha guidato la mia vita, sia come essere umano che come artista: ho sempre cercato di non pormi dei limiti o dei confini in quello che facevo sia da un punto di vista mio personale, che musicale. Cosa significa per uno come te, che presta sempre molta attenzione alla natura e ama trascorrere tanto tempo in mezzo al verde, esibirti in una location naturale così suggestiva?No Borders si svolge in un luogo incantevole (chi ci è stato lo sa), che riesce a mantenere un meraviglioso equilibrio tra l’idea di seguire la musica in un luogo che di per sé è spettacolare (l’artista fa uno spettacolo, ma in realtà lo spettacolo è intorno a lui) e l’idea di poterlo fare con un certo garbo. L’umanità che popola questi luoghi, inoltre, preserva e continua a lasciare integro e intatto l’ambiente che ospita questi concerti. Un tour nei palazzetti e subito dopo uno outdoor: dopo tutto questo silenzio, com’è stato tornare a incontrare il pubblico nei concerti?Suonare dopo la pandemia ha significato abbandonare tutta una serie di paure e di timori. In primis che proprio noi artisti ci fossimo disabituati alla dimensione live, che non avremmo più avuto la stessa energia per tornare sul palco, perché c’è stato un momento di disincanto e disillusione. Avevamo anche il timore che il pubblico non avesse più voglia o avesse addirittura paura di tornare ad abitare i riti collettivi (così mi piace chiamarli). In realtà poi tutto questo timore è svanito subito, perché la voglia di tornare alla “normalità” era così grande, che al primo concerto, da subito, ho pensato “Ah, che meraviglia!”. Per me poi è stata la prima volta nei palazzetti ed è stato bellissimo! Dirò una cosa retorica, ma la gioia del ritrovarsi insieme ha superato la gioia di eseguire la musica per comunicare, dare delle idee e trasferire dei concetti. Mi sembrava molto più giusto celebrare questo rituale collettivo, fare stare insieme le persone, farle cantare, ma anche sfogare dopo un periodo così duro. Cip! - l’album che suoni per intero in questo tour - è un disco molto sognante, ottimista e fa spesso riferimento a un senso di rinascita. Nonostante sia uscito in era pre-pandemica (gennaio 2020), riesci a vedere un legame tra l’album e questo momento che stiamo vivendo, in cui c’è una sorta di rinascita generale e di ritorno alla normalità?Sicuramente a posteriori, e soprattutto dopo questo periodo così buio, molte cose che ho scritto risuonano in maniera molto più “particolare”, forse più forte, non solo per me che le canto ma penso anche per le persone che le ascoltano. In qualche modo il disco aveva come tematica centrale la morte, non da interpretare in senso stretto e drammatico, ma con un’accezione di accettazione e forma di stimolo che sprona alla vitalità. In realtà in tutti i miei ultimi progetti è presente quest’idea di cercare di metabolizzare i momenti drammatici affinché possano diventare una sorta di stimolo per il futuro, addirittura di evoluzione. Da quando sei diventato padre non hai mai nascosto di aver cambiato il tuo modo di vedere il mondo. Hai già pronta una canzone dedicata a tua figlia Fiammetta?Mi sono fatto questa promessa: scriverò una canzone per Fiammetta quando avrà 18 anni, perché devo valutare prima come si comporterà con suo padre, che è e sarà un padre eccezionale (ride). Non farò una canzone così su due piedi solo perché mi è nata una bambina. Sono sempre stato un uomo responsabile e prendermi cura di un’altra persona non mi spaventa, anzi. Diciamo che potrei prendermi cura di altri bambini, potrei diventare una specie di “Tagesmutter cantautorale”. Hai concluso quasi ogni data del tour con “Arrivederci tristezza”, uno dei tuoi brani più noti. È questo il tuo augurio e messaggio di speranza per il futuro?Ho quasi sempre utilizzato questo pezzo in coda, sia perché ha uno stile tipicamente “brunoriano”, se così vogliamo dire, sia per una questione “musicale”. Non è un vero e proprio addio alla tristezza, ma un arrivederci. Sono sempre dell’avviso che non bisogna fuggire dal dolore, soprattutto in un periodo come questo. Penso che la cosa più giusta da fare, nelle situazioni di dolore, sia fare un bel respiro e pensare che questi momenti, seppur difficili, devono essere considerati come dei momenti di crescita. Quindi “Arrivederci tristezza, ci rivedremo, e quando ci rivedremo sarà un’occasione di crescita”. E poi lo dicevano anche i poeti che le ossa si fanno in salita, non in discesa!

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