Martedì 16 Aprile 2024

Bee Gees, la nostra febbre del sabato sera

Fra John Travolta e discomusic: l’epopea della band rivive in un docufilm. E “il bello“ Barry Gibb a 74 anni pubblica un nuovo album

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di Andrea Spinelli

Tra i personaggi-chiave del pop c’è di sicuro Arif Mardin, il produttore che ha "inventato" il falsetto dei Bee Gees, mettendo le ali a un’avventura adesso celebrata da How can you mend a broken heart, il docufilm Hbo di Frank Marshall in uscita sulle piattaforme streaming lunedì 14 dicembre. Era il ’75, infatti, quando Mardin durante le registrazioni dell’album Main course, chiese all’allora 29enne Barry Gibb – il “bello” del trio – di cantare Jive talkin’ con dei registri alti dal sapore r&b. Niente che non avessero già fatto Frankie Valli o Brian Wilson con i Beach Boys, ma che per la musica dei Bee Gees avrebbe rappresentato la svolta. Non a caso, nel ’77 la colonna sonora del film con John Travolta Saturday Night Fever (La febbre del sabato sera) coi suoi 45 milioni di copie vendute, dette ai tre il dominio totale delle classifiche e dell’etere americano con sette singoli al top uno dietro l’altro, tra cui How Deep Is Your Love, Stayin‘ Alive, Night Fever. Un successo ancora straordinario, paragonabile solo a Thriller di Michael Jackson o a Back in Black degli ACDC.

È dal ’74, quando s’insediò nella casa ritratta da Eric Clapton sulla copertina di 461 Ocean Boulevard, che per l’inglese Barry Gibb (nato sull’isola di Man, cresciuto a Manchester, migrato in Australia, tornato in Inghilterra e poi volato in America) Miami rappresenta il centro del mondo. Oggi vive in una villa affacciata su Biscayne Bay, con una variegata schiera di (ex) vicini di casa che va da Jennifer Lopez al narcotrafficante Pablo Escobar, circondato da cinque figli e sette nipoti.

Il primo settembre ha festeggiato nello stesso giorno il 74° compleanno e il 50° anniversario di matrimonio. Ha incontrato infatti la sua seconda moglie Linda Ann Gray, ex Miss Edimburgo, alla fine degli anni ‘60 e non se n’è più allontanato. Qualche distrazione (pure italiana), ma niente di significativo.

È stato il matrimonio a tenerlo sulla strada mentre il successo, anzi l’"iper-fama" come la chiama lui, divorava con alcol e amfetamine le esistenze dei fratelli. Il primo a lasciare la famiglia è stato nell’88 il fratello minore Andy; lui che in Arrow Through the Heart cantava "sono troppo giovane per morire", se n’è andato per un’infiammazione del miocardio (leggi cocaina) a soli 30 anni. Ma la sua era stata una carriera a parte rispetto a quella del super-trio.

Dopo i fasti della Febbre del sabato sera, per Barry & Co. arrivarono gli anni Ottanta e con essi le difficoltà legate a un generale riflusso di rock "duro e puro" e soprattutto a un reazionario movimento anti-disco coalizzato contro i bianchi che strizzavano troppo l’occhio alla musica nera (e ai fasti glitterati e gay friendly delle piste da ballo). La resurrezione non tardò: 15 milioni di copie vendute da Guilty con Barbra Streisand. Ma alti e bassi, glorie e disgrazie, litigi e riconciliazioni in famiglia non sono mai macati.

La grande avventura dei Bee Gees, comunque, finì nel 2003 con la morte di Maurice per un attacco cardiaco. Il gemello di Maurice, Robin, voleva continuare in due, ma Barry, no. Il fratello sapeva qualcosa che lui ignorava: di avere i giorni contati, fino al 2012. "Quando il problema all’intestino di Robin ha iniziato a degenerare, scoprire la verità m’ha caricato di sensi di colpa" ammette l’ultimo Gibb, che sul grande schermo potrebbe avere il volto di Bradley Cooper se l’attore accetterà l’offerta di Graham King (Bohemian Rhapsody) d’interpretarlo in un biopic coprodotto da Spielberg.

"Lì per lì ho pensato di ritirarmi, poi mi sono reso conto che sono l’unico in condizione di mantenere viva la nostra musica. E questa ora è la mia missione", dice. Un impegno che lo spinge a pubblicare il prossimo 8 gennaio Greenfields: The Gibb Brothers Songbook, vol. 1, viaggio nell’epopea famigliare registrato a Nashville con uno stuolo di soliti noti del country e del pop che va da Keith Urban a Sheryl Crow, da Dolly Parton a Olivia Newton-John.

Mentre solo tre anni fa il popolo del Festival di Glastonbury lo lasciava interdetto, e commosso: eccoli lì, migliaia di ragazzi scatenati a ballare Stayin’ Alive, ancheggiando come Tony Manero, e regalandogli la consapevolezza che – finalmente, critiche di rockettari archiviate per sempre – la sua musica è un gioioso patrimonio di tre generazioni.

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