Venerdì 19 Aprile 2024

Roberto Baggio e il rigore sbagliato nella vita di tutti noi

L'incubo della finale mondiale del '94. Ma non c'è uomo senza errore (e senza riscatto)

La delusione di Roberto Baggio dopo il rigore sbagliato ai Mondiali del '94

La delusione di Roberto Baggio dopo il rigore sbagliato ai Mondiali del '94

Roma, 7 giugno 2019 - Anche se sono passati 25 anni, Roberto Baggio non ha superato lo choc del rigore sbagliato a Pasadena nella finale mondiale con il Brasile di Usa ‘94. "Ancora oggi non dormo bene per quell’errore. Purtroppo è successo e tali situazioni spiacevoli possono servire da lezione", ha detto l’ex codino d’oro durante un evento a Belgrado. "Da bambino avevo sempre sognato di giocare in Nazionale una finale mondiale col Brasile, per vendicare quella persa nel 1970. Ma un conto è sognare e un conto è la realtà. E io avevo sognato una finale differente", ha spiegato il campione, Pallone d’oro nel 1993. Il tema di quel rigore mai dimenticato è ricorrente. Già in passato il Divin Codino rivelò di provare "la stessa amarezza di quel giorno, non ho mai capito il senso di quell’errore. Credo che non passerà". Amatissimo da tutto il pubblico italiano, senza distinzione di appartenenza calcistica, tra le squadre nelle quali ha giocato (Vicenza, Fiorentina, Juventus, Milan, Bologna, Inter e Brescia) non ne ha indicato una in particolare che gli sia rimasta nel cuore. "Sono legato a tutte. Ho avuto il privilegio di giocare in grandi club, ma in ogni squadra ho imparato molto, lottando sia per lo scudetto sia per non retrocedere", ha detto. L’ex attaccante ha ammesso di non aver mai avvertito il desiderio di fare l’allenatore ("pensavo a giocare"), né di andare all’estero per il timore di uscire dal giro della Nazionale. A una domanda poi sul calcio italiano, Roberto Baggio ha detto che "il campionato italiano è il più difficile", anche se la tattica spesso ostacola lo sviluppo del bel gioco.

---

Roberto Baggio non si perdona un calcio di rigore mancato venticinque anni fa. Forse è il caso di citare il rammarico di Dante per il generoso rimorso che prova la sua guida, Virgilio: "O dignitosa coscienza e netta / come t’è picciol fallo amaro morso!". Come un’ombra nefasta il fallito gol accompagna il campione, diventato incubo ricorrente. Lo ha consegnato al senso di una perpetua inadeguatezza, come quando qualcuno di noi continua a sognare l’esame di maturità che non è più preparato ad affrontare.

Quante inadempienze ci inseguono e inquietano come severi convitati di pietra? Di quante sconfitte è sostanziato il coraggio di non mollare mai e di sapersi rialzare? La stessa sostanza dell’uomo è composta di coraggio e paura, forza e fragilità, vanto e vergogna. Metà Achille, metà Ettore. Metà angelo, metà diavolo. Questa natura dualistica ce la rammenta ancora Dante: "Molte fiate all’intenzion dell’arte/ ... la materia è sorda". Nasce da questa consapevolezza, dall’eterno divario fra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere, quel profondo senso di colpa che in certe credenze religiose nutre la confessione, molto prima di atterrare alla laica terapia del transfert, con la psicoanalisi di Freud. Che cosa sarebbe nei cristiani l’ansia di redenzione se non venisse alimentata dal senso di una macchia indelebile di nascita, connaturata alla stessa creazione dell’uomo, il peccato originale?

E pure, a saper ben leggere fra le righe le Scritture, al senso dell’originario peccato s’accompagna sempre quello dell’originaria innocenza. La perfezione dello stato di natura si corrompe infatti nella scelta di Adamo. Un attimo prima di mancare il calcio di rigore, Baggio era ancora libero di sognare il gol, tutto era ancora possibile, l’Italia poteva ancora vincere: come Adamo prima del gesto di cogliere la mela, metafora della conoscenza del bene e del male. Ancora perfetto, estraneo alla vecchiaia, alla morte, alla maledizione del lavoro.

C'è da smarrirsi nelle infinite ipotesi, tutte a nostro tormento, di ciò che avrebbe potuto essere se una variabile fosse intervenuta a salvarci. Pensiamo al grande perdente di Waterloo, Napoleone. Che a Sant’Elena sognava ancora che la sera di quella domenica 18 giugno 1815, invece di arrivare Blucher in rinforzo a Wellington, arrivasse da lui, con la sua cavalleria, Grouchy, che si era perso. Temo che questi rimorsi delle mancate vite, queste rivisitazioni di altri corsi possibili delle nostre esistenze, siano un segno di senilità, facendosi più frequenti nell’ultima parte, quando il Tempo, la preziosa materia di cui siamo fatti, ormai manca. Quando non è più possibile altro che nel sogno riavvolgere il nastro del Tempo. E marcare quel gol, visto che "il sogno è l’infinita ombra del vero". Ma cosa sarebbe la nostra esistenza senza quest’ombra? L’energia per tornare a tentare la sorte, a cercare la rivincita, ne è figlia. La grazia agostiniana della redenzione nasce dal senso del peccato: "L’acqua l’insegna la sete", ricordava Dickinson.

è arrivato su WhatsApp

Per ricevere le notizie selezionate dalla redazione in modo semplice e sicuro