Giovedì 18 Aprile 2024

Avanti Italia, alla riscossa. Ma senza retorica

Tanti successi da festeggiare. La storia insegna che però è l’estro del singolo a trionfare: per questo occorre dare ai giovani un "sistema"

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di Davide Rondoni

"L’Italia sempre ferita che mai muore...". Sembra di sentire le parole del provato ma ancora appassionato Marinetti, pronunciate prima di morire, mentre oggi ascoltiamo il giubilo sacrosanto per un Nobel alla Fisica assegnato a un italiano, Giorgio Parisi dell’Universita La Sapienza. Siamo in un nuovo rinascimento, come già dice qualcuno? Il premio si aggiunge a vittorie sportive che hanno costellato gli ultimi mesi di un Paese duramente provato dalla pandemia e dalla crisi. Un Paese, taluni dicono, che però sembra vivere un inaspettato rinascimento o chiamiamola riscossa.

Sembra proprio che l’Italia sempre ferita, anzi quanto più ferita, invece di morire dia guizzi inaspettati di vitalità. E guadagni in rispetto mondiale. Stremata dalla guerra ne uscì la settima potenza mondiale e una maestra mondiale di estetica tra cinema, arte e letteratura. Stremata dal terrorismo, si vinsero i mondiali di calcio e venne la ripresa a traino Craxi-Andreotti con prese di posizione coraggiose (e poi pagate caro) sullo scacchiere internazionale. Qualcuno oggi vede persino nella presidenza Draghi, leader riconosciuto dai potenti del mondo, una ripresa di dignità, di amor patrio. Se poi si aggiungono le cifre di Pil che vanno per la prima volta dopo anni in controtendenza, e mettiamoci pure la soddisfazione di sentir gli inglesi riconoscerci superiori sui loro media, beh, qualche motivo per parlare di rinascenza italiana c’è.

Qualcuno lo chiama già pomposamente nuovo rinascimento, forse senza sapere bene le condizioni storiche e culturali in cui avvenne quel fenomeno, tutt’altro che semplificabile, che si espresse in capolavori magnifici. Non so se sia così, di certo il Nobel (senza però dimenticare l’ambiguità di questo premio) così come le vittorie agli europei di calcio e pallavolo nonché il medagliere olimpico fatto spesso di vittorie insperate hanno fatto rispolverare una orgogliosa retorica patria.

A correggerla subito, forse, varrebbe la pena ricordare, nel suo anno celebrativo, i versi che il nostro immenso poeta, Dante, dedica alla sua e nostra patria: la chiama "nave senza nocchiere" e "bordello". E ricordare il fatto che lui, oggi celebrato padre della patria, in realtà aspettava un imperatore straniero per sistemare le cose. Cosa che spesso è accaduta e accade. Tutto questo perché, vale la pena ripeterselo proprio di fronte a questi meritati splendidi successi, l’Italia è una patria poetica e culturale più che politica.

Noi siamo una entità strana, e far finta del contrario porta a suonare le trombe su note sbagliate e a prendere abbagli terribili. L’Italia è una realtà spirituale, più che politica. Lo mostra, intera, la storia di questa terra chiamata Italia ben prima che ci fosse una sola bandiera, un parlamento e le prefetture. Chi lo dimentica fa un errore storico e sociale grave. Non bisogna confondere i piani.

I capolavori dell’arte italiana, sorti in quel meticciato culturale che furono il nostro splendido Medioevo – quando nacquero università e cattedrali e nuove forme del diritto – e il nostro Rinascimento, sono infatti spesso frutto di genio e estro di singoli e di gruppi ben più che di quel che i retori delle Istituzioni oggi un po’ banalmente e artificiosamente chiamano "sistema paese". L’ambizione di famiglie potenti, la forte competizione tra potentati confinanti e confliggenti nel nostro territorio, la coltivazione che fecero di talenti potenti, compreso quel Michelangelo di cui vilmente proprio l’Italia attuale si vergogna a Dubai coprendo parte del David, sono stati i fattori decisivi e fertili dello splendore italiano. Non certo un "sistema", anzi semmai un certo caos, come ricorda una famosa storiella che ci paragona alla tranquilla Svizzera dove inventarono solo il Cucù.

Certo, anche nell’Italia post-unitaria non mancarono geni e eccellenze che inorgogliscono dinanzi al mondo, da Ferrari a Ferrero, da Meucci a diversi artisti, da Boccioni a Cattelan. Ma si tratta, basti pensare alla storia di Marconi, di genialità frutto di una cosa che non viene garantita o messa a frutto da una presunta capacità politica. Si tratta di una qualità che chiamo sempre "estro". La parola viene dal greco e indica quella puntura (letteralmente è il tafano) che spinge a voler far bene una cosa, una specie di fastidio che non ti lascia finché non dai il massimo, fosse anche nel fare un pistone o una corsa, un ricciolo di stucco invisibile ai più o una speciale levigatura per un violino.

Un "estro" come ricorda una poesia di Attilio Bertolucci che fa degli imbianchini pittori, e di mobilieri degli inventori di design. Tale qualità dell’animo italiano è frutto di una miscela felicemente esplosiva, di un meticciato culturale che ha nella radice greca e mediorentale insieme a quella barbara e nordica, e nella grande forza compositiva della cultura latina e cristiana i suoi elementi primari, insieme a un sottosuolo ribollente di tradizioni selvatiche e indomabili che nutrono tutta la bellissima selva culturale italiana. Ma questo estro può essere passato alle nuove generazioni solo da persone che ce l’hanno addosso, che la vivono. Che ne hanno una consapevolezza realista e critica.

Godiamo dunque dei successi e delle imprese, ma intanto invece di cullarci in una facile retorica da orgoglio italico, interveniamo su quanto rende difficile oggi nel Paese questa trasmissione dell’estro, proprio là dove dovrebbe avvenire (scuola, università...). L’Italia esiste, come si vede, se esiste l’estro non se funziona Equitalia.

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