Mercoledì 24 Aprile 2024

L'auto maledetta dell'arciduca Francesco Ferdinando. Tra incidenti e morti misteriose

Una catena di tragedie ha accompagnato la "Graef & Stiff" dopo l'attentato di Sarajevo del 1914

L'auto di Francesco Ferdinando

L'auto di Francesco Ferdinando

Sarajevo, 17 gennaio 2019 - Su quell'automobile maledetta si è consumata la storia d’Europa e vi è scoccata la detonazione che ha portato il mondo a precipitare in uno dei conflitti più sanguinosi della storia. È la Graef & Stift  “Bois de Boulogne” su cui l’Arciduca d’Austria Francesco Ferdinando fu assassinato, insieme alla moglie Sofia, dallo studente bosniaco Gavrilo Princip il 28 giugno 1914, a Sarajevo. Sei posti, quattro marce e un motore a quattro cilindri: l’auto è ancora conservata al Museo di storia militare di Vienna, insieme all’uniforme insanguinata dell’erede al trono asburgico. Una giubba azzurro ghiaccio, come gli occhi di quell’aristocratico dall’aspetto severo, somigliante al Kaiser tedesco suo amico, ma che intendeva salvare l’Impero austroungarico aprendo agli irredentismi delle varie etnie che lo componevano, immaginando una confederazione di Stati. L’arciduca era anche un uomo romantico che ottenne, contro il volere dello zio imperatore Francesco Giuseppe, il matrimonio morganatico con la contessa Sofia Chotek – non di sangue reale – che pure gli avrebbe imposto la rinuncia al trono per i figli nascituri. 

Furono proprio per la moglie adorata le sue ultime parole, proferite nonostante un proiettile gli avesse trapassato il collo: "Sopherl! Sterbe nicht! Bleibe am Leben für unsere Kinder!" ("Sofietta! Non morire! Rimani viva per i nostri bambini!") Ma la sua consorte, ferita al ventre, se ne andò quasi subito. Il conte Franz von Harrach, proprietario dell’auto e fedele guardia del corpo, cercò di sbottonare l’uniforme dell’arciduca forse praticandovi quel taglio che ancora oggi si vede: "State soffrendo molto vostra Altezza Imperiale?" chiese il conte. "Non è niente", rispose Francesco Ferdinando prima di perdere conoscenza.

Il resto è storia nota a tutti: quattro anni di guerra mondiale, circa 16 milioni di morti fino alla pace firmata l’11 novembre 1918. Un giorno che sembra essere stato preconizzato dalla targa stessa dell’automobile: A 11 11 18, dove la “A”, potrebbe ricordare la parola Armistizio. Fu dopo questa data che la vettura ricomparve, quando il neogovernatore della Jugoslavia volle rimetterla su strada. Mal gliene incolse: con essa fu coinvolto in quattro incidenti stradali che gli costarono anche l’amputazione di un braccio.

Convintosi che la macchina fosse maledetta, l’uomo politico voleva distruggerla, ma fu invitato a desistere dal suo medico, tale Srikis, che insistette per guidarla. Dopo sei mesi, Srikis fu trovato morto su una strada di campagna, schiacciato dall’auto che si era ribaltata. Un collega del medico la prese in carico, allora, salvo liberarsene presto dopo che i suoi pazienti, inspiegabilmente, erano tutti morti. Fu poi la volta di un pilota automobilistico svizzero, che la acquistò per pochi soldi. Tuttavia, il suo sprezzo per le superstizioni non lo salvò dallo schiantarsi mortalmente contro un muro durante una corsa sulle Dolomiti.

La berlina venne allora riparata e comprata da un ricco possidente terriero il quale, durante una gita, vi rimase in panne. Mentre, insieme a un suo amico, trafficava davanti al cofano per legare i cavi di traino, l’auto si mise improvvisamente in moto e li investì, uccidendoli entrambi. L’ultimo proprietario si chiamava Tiber Hirshfield che illudendosi di “purificare” la vettura la fece ridipingere di un bell’azzurro chiaro. Invitato a un matrimonio, caricò a bordo cinque amici, nell’intento di fare un’entrata “ad effetto” per la festa. I cinque non arrivarono mai a destinazione, per un incidente che li uccise tutti durante il percorso. Furono undici le vittime totali dell’auto, come il numero fatidico segnato sulla sua targa.

In questi casi, gli scettici parlano sempre di pure coincidenze, mentre i più aperti possono contemplare l’ipotesi che quella automobile si fosse caricata di energie emotive negative. Una spiegazione tecnica la offre Francesco Pellizzari, direttore della rivista Automobilismo d’epoca: "Le auto di quell’epoca erano poco più che carrozze a motore, realizzate in legno e ferro, ma, pure, raggiungevano pericolosamente i 70-80 chilometri orari. Si era in tempi pionieristici sia dal punto di vista meccanico, che della guida e della cura del manto stradale. È possibile che dato il valore storico della vettura, ci si fosse accaniti con restauri approssimativi su un telaio ormai molto compromesso e danneggiato. Questi fattori potrebbero aver provocato il nutrito numero di incidenti di cui fu tristemente protagonista la Graef & Stift". Chi lo sa? Per dirla con Eduardo, essere superstiziosi è da ignoranti, ma non esserlo porta male.

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