Giovedì 18 Aprile 2024

Anche il Var (forse) gli starebbe antipatico

Luciano Bianciardi non ‘sopportava’ il fuorigioco, tornano i suoi pezzi sul calcio. Scrittori e pallone: una lunga storia d’amore

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di Lorenzo Guadagnucci

"Come tutti gli uruguaiani, avrei voluto essere un calciatore. Giocavo benissimo, ero un fenomeno, ma soltanto di notte, mentre dormivo; durante il giorno ero il peggior scarpone che sia comparso nei campetti del mio paese": Eduardo Galeano (1940-2015) esordiva così in Miserie e splendori del gioco del calcio, un classico della brillante, ma non copiosa letteratura calcistica.

L’argentino Osvaldo Soriano (1943-1997) è stato un altro scrittore capace di trasformare il calcio in un’epopea romanzesca, con raccolte di racconti come Pensare con i piedi e Fútbol, ma anche cronache da scrittore-giornalista degne di restare nelle antologie (nell’86 seguì i Mondiali del Messico, vinti proprio dall’Argentina di Diego Armando Maradona, per il quotidiano italiano il Manifesto).

Al di qua dell’Atlantico sono memorabili, negli ultimi anni, un paio di romanzi usciti nel paese che il calcio lo inventò, l’Inghilterra: Febbre a 90° dello scrittore, tifosissimo dell’Arsenal, Nick Hornby, e Il maledetto United di David Peace, con l’allenatore Brian Clough, eccentrico tecnico del Leeds, al centro di un’appassionata narrazione. Entrambi i romanzi – autentici bestseller – sono arrivati al cinema.

E l’Italia? Be’, l’Italia, che pure ha fama di nazione “nel pallone“, non ha prodotto finora sul calcio romanzi che abbiano davvero fatto storia. Gli esperti menzionano solitamente come vertice narrativo Azzurro tenebra, opera di Giovanni Arpino, scrittore e giornalista sportivo, ambientata fra i calciatori e dirigenti azzurri durante i tristi Mondiali in Germania Ovest nel ’74, il torneo nel quale sfiorì la generazione d’oro di Riva, Mazzola, Rivera e gli altri campioni rimasti nella storia del calcio – fra le altre cose – per la partita forse più bella mai giocata, il famoso Italia-Germania 4-3 ai Mondiali messicani del 1970.

E poi c’è Bianciardi. Luciano Bianciardi (1922-1971). Scrittore anarchico nei modi e nelle idee, uomo di provincia (Grosseto) approdato nella metropoli del boom (Milano) e lì divenuto acutissimo critico, a volte stralunato,della società dei consumi, cui non seppe mai adeguarsi fino in fondo. Il suo romanzo La vita agra è fra i punti fermi della letteratura italiana del ’900 (Carlo Lizzani ne trasse un film con Ugo Tognazzi protagonista). Ebbene, Bianciardi a un certo punto cominciò a occuparsi di calcio (e marginalmente anche di altri sport) in un modo rimasto inimitabile, nonostante vari tentativi di imitazione. La sua tribuna fu la rubrica delle lettere del Guerin sportivo, testata all’epoca (inizio anni Settanta) prestigiosa e d’alta qualità.

Fu il direttore Gianni Brera (1919-1992) – altro giornalista che diede spessore culturale alla cronaca e all’analisi del calcio – ad affidare a Bianciardi, nel settembre 1970, il compito di rispondere alle domande dei lettori. E lui lo fece da par suo, sfoggiando ironia, cultura storica, passioni imprevedibili, gusto del paradosso e della sorpresa. Gli chiedevano dell’Inter o della Juve, di Scopigno o di De Sisti, di mille questioni anche minute, e lui replicava citando il Risorgimento e Garibaldi (sue grandi passioni), il cinema e la politica, la letteratura e la mitologia. L’editore Gog ha pubblicato di recente – col titolo Potevo fare il trequartista – una parte di quel singolare epistolario, che fu preceduto, sul Guerino, da alcuni gustosi elzeviri, ripubblicati tempo addietro dall’editore Stampa alternativa in una raccolta completa dei testi bianciardiani usciti sul settimanale: una raccolta che ebbe per titolo un’espressione che restituisce lo spirito del Bianciardi scrittore di calcio: Il fuorigioco mi sta antipatico.

In uno degli elzeviri – Il secondo Risorgimento del cavalier Facchetti – Bianciardi si cimenta in un episodio di storia controfattuale: immagina che l’Italia abbia vinto i famosi Mondiali del 1970, quelli del 4-3 alla Germania Ovest in semifinale, e che il paese ne sia esaltato nel profondo, fino a diventare all’istante una Repubblica presidenziale... "Io ripensavo a Mameli – scrive con prosa risorgimentale – al suo eroismo e poi all’eroismo nuovo, di questa eletta schiera, fratelli nostri due volte, che si cingevano la testa dell’elmo di Scipio (...) Si erano poco fa stretti a coorte, avevano recato il loro impeto contro la burbanza dei brasiliani, già combattuti e vinti da Giuseppe Garibaldi, più di un secolo prima, durante i prodromi del nostro primo Risorgimento". No, non si legge più – da tempo – niente del genere. Certo, il calcio nel frattempo è cambiato, ma la letteratura non ne ha tenuto il passo.

Per la cronaca, a Bianciardi, oltre al fuorigioco, stava antipatica anche la moviola – "Le partite debbono arbitrarle gli arbitri, non i mezzi audiovisivi" – e se ne è andato molto tempo prima di dover assistere alla svolta finanziaria e tecnocratica che ha investito il calcio, fra magnati cinesi e fondi di investimento, onnipotenza delle televisioni, calciatori trasformati in persone-aziende con fatturati da capogiro. Anche il Var, c’è da scommetterci, gli sarebbe stato antipatico, e forse peggio che antipatico. Ci vorrebbe un nuovo Bianciardi.

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