Venerdì 19 Aprile 2024

Alla Scala il genio tormentato di Musorgskij

Oggi il “Boris Godunov“ apre la stagione: sarà eseguita la prima versione dell’opera, inzialmente bocciata dai Teatri imperiali russi

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di Elvio

Giudici

Diverse sono state le vie lungo le quali, nella seconda metà dell’Ottocento, l’antico melodramma a pezzi chiusi è avanzato verso il moderno dramma musicale. Quella percorsa dall’Est europeo è senza dubbio la più lontana dalla nostra sensibilità, e in essa giganteggia la figura di Modest Petrovič Musorgskij. Classe 1839; famiglia della piccola nobiltà terriera mandata in rovina dall’abolizione della servitù della gleba voluta da Alessandro II; studi con la madre pianista e poi nei collegi tedeschi prima e militare poi che lo preparano a far parte della Guardia Imperiale; diciottenne, entra nella cerchia musicale di Pietroburgo e prende lezioni di composizione da Balakirev, cominciando a scrivere liriche per voce e pianoforte; infine, ventunenne, Modest lascia l’esercito per dedicarsi interamente alla composizione unendosi al Gruppo dei Cinque (assieme a lui, Balakirev, Cui, Borodin, Rimskij-Korsakov), orientato verso uno stile marcatamente russo su soggetti derivati dalla storia russa.

Nel 1868 decide di volgere in musica il dramma Boris Godunov di Puškin, pubblicato trentasette anni prima ma mai autorizzato dalla censura a essere rappresentato: il suo marcato realismo così lontano dalle tendenze romantiche dell’epoca, unito alla complessità psicologica dei personaggi e alla raffigurazione del popolo, ispirano immediatamente in Musorgskij un linguaggio assai diverso rispetto agli altri del Gruppo. Linguaggio personalissimo nel suo trattamento armonico in seno a una struttura strumentale pensata per avvolgere e rispecchiare un declamato vocale intensamente quantunque peculiarmente melodico: e che aderisce come un guanto non solo al significato testuale, ma proprio alla struttura semantica dei singoli fonemi della parola, che in tal modo libera i propri intrinseci contenuti musicali.

Scrittura pertanto in anticipo, questa prima versione del 1869, di cinquant’anni almeno su quanto avverrà nell’ultimo scorcio dell’Ottocento e ancor più dopo: e soprattutto, in completa antitesi con gli indirizzi accademici allora imperanti. Presentato alla Direzione dei Teatri Imperiali nello stesso 1870 che vede in scena per la prima volta il dramma di Puškin, il responso – non sorprendentemente – fu negativo. Le scuse della mancanza d’un intreccio amoroso e della scarsa valenza melodica sono appunto solo scuse.

Troppo originale, troppo discosta dal “buon comporre” quell’opera debordante di mormoranti contrappunti che svicolano dall’occidentale dicotomia rigida di maggiore e minore per andare verso una modalità più libera, profumata di quell’incenso liturgico ortodosso che col canto popolare stabilisce nessi immediati e straordinariamente fascinosi; tutto un fiorire di originalissime scale per toni interi, di accordi di per sé risaputi ma di tutt’altro effetto ove deflagrino in andamenti melodici privi di sicuri agganci tonali.

Musorgskij si getta allora in un rifacimento che, completato nel 1872, arricchisce la versione antecedente di parecchia musica nonché di due episodi interamente nuovi: musica tutta di di altissima fattura, sicché solo il gusto musicale soggettivo può prefereire l’una rispetto all’altra. Diverso discorso, invece, circa la sua drammaturgia. Priva dell’atto polacco e della scena finale della rivolta nella foresta di Kromy (cosicché l’opera chiude sulla morte di Boris) nonché di tutte le canzoni popolari; il molto maggior rilievo attribuito alla figura del monaco storiografo Pimen; il diverso andamento del grande monologo di Boris e del confronto con l’infido boiaro Šuiskij: la scabra essenzialità delle sette scene della versione 1869 (quella scelta dalla Scala) isola in un violento cono di luce Boris e il Popolo quali destinatari dell’indagine sugli effetti devastanti (per la coscienza dell’uno e la vita quotidiana dell’altro) del potere, immutabile motore della storia ovvero del terzo protagonista, incarnato nel monaco Pimen che nei suoi scuri abissi getta l’implacabile luce della testimonianza scritta.

Nemmeno è a dire, ovviamente, quanto ormai archiviata in un passato improponibile sia la versione (due, in realtà) approntata da Rimskij-Korsakov, né più né meno che una totale riscrittura: bellissima di per sé e col non lieve merito di aver funto da volano per la diffusione dell’opera, altrimenti problematica per la sua tanto diversa concezione di linguaggio musicale; ma oggi irrimediabilmente “altra” e soprattutto “antica” rispetto alla geniale, modernissima concezione di Musorgskij.

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