ALLA GUERRA E RITORNO

IL REGISTA FRANCESCO DEL GROSSO. PREMIATO A NEW YORK. PER IL DOCUFILM ’IN PRIMA LINEA’

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C’è chi li vede come lupi solitari mossi solo da una feroce adrenalina che li spinge a rischiare la loro stessa vita per riprendere quella in pericolo degli altri. C’è chi lo ritiene un mestiere solo da uomini veri ignorando che la storia ci ha restituito figure come quella di Gerda Taro, la compagna di Robert Capa. ‘In prima linea’, il documentario di Francesco Del Grosso e Matteo Balsamo che stasera alle 21 saranno protagonisti di una serata evento al Nuovo Cinema Aquila di Roma e domani replicheranno al Nuovo Eden di Brescia, vuole smontare stereotipi e luoghi comuni sulla figura dei fotoreporter di guerra per restituirci l’umanità oltre la professione.

Del Grosso, com’è stato concepito un progetto del genere durante una guerra come quella non ancora vinta sul Covid?

"Come spesso succede, per caso. Mi ero appena trasferito a Milano e ho conosciuto Matteo, titolare di una piccola società di produzione a Pavia. Il miracolo è stato che dopo quattro settimane battevamo già il primo ciak. La pandemia ci ha sorpreso nella fase di post-produzione, fatta quasi tutta da remoto tra Milano, la Sardegna, Roma e Pavia. Siamo comunque orgogliosi di un film completamente indipendente, che ha già ottenuto visibilità internazionale tra Brasile, Canada e America dove ha ottenuto anche il premio dell’International Filmmaker Festival di New York".

La sua poetica incentrata sull’essere umano come si è esplicata stavolta?

"Combattendo i luoghi comuni di un immaginario distorto che ci consegna figure lontane dalla realtà dei fatti. E immaginando la prima linea ovunque ci sia resilienza, non necessariamente quindi dove cadono le bombe ma anche dove si ingaggia una lotta per la sopravvivenza".

Inserendo le testimonianze di nomi come Isabella Balena, Arianna Pagani, Andreja Restek, Francesca Volpi ha anche sdoganato il punto di vista femminile...

"A lungo si è pensato potesse essere un mestiere solo da uomini non foss’altro che per la fatica fisica di indossare un giubbotto antiproiettile e di portare la macchina fotografica. E poi la donna la si pensa sempre legata a filo doppio alla famiglia e alla casa, quindi incompatibile con missioni sui teatri di guerra. E invece abbiamo scoperto che ci sono luoghi dove le donne hanno più libero accesso rispetto agli uomini, per esempio in Medio Oriente".

Le immagini mettono noi spettatori di fronte alla crudeltà della guerra. Loro che la sfiorano che conseguenze ne riportano?

"Il ritorno a una società in pace non è sempre semplice, perché dietro la macchina fotografica che riprende la morte c’è una persona e gettarsi alle spalle certe scene può richiedere fatica o anche fallire. Per questo abbiamo puntato la macchina da presa molto sui loro sguardi, la parte più sincera, per rintracciare i veri perchè di tante scelte, magari mettendoli a confronto diretto con dettagli delle loro immagini. Gabriele Micalizzi ci ha detto: "Non scattare è fare un torto all’umanità".

Fermare la storia e tramandarla oggi avviene in pochi secondi...

"Livio Senigalliesi ha proprio sottolineato il valore testimoniale dei loro archivi dove sono custodite sequenze di vere e proprie mattanze, solo che la transizione tra l’analogico e il digitale ha modificato radicalmente anche l’approccio al lavoro, ponendo la questione etica del limite tra informazione e pornografia della violenza. Resta però di fondo un filo rosso che accomuna tutte le generazioni ed è il proprio pathos di fronte a un corpo straziato".

E il vostro occhio come si è posto verso i protagonisti della pellicola?

"Da spettatori vergini, lontani da ogni forma di giudizio per imparare a guardare attraverso i loro occhi. Focalizzandoci sulle loro figure, perchè spesso sono più note le foto rispetto alla loro identità, e lasciando scegliere a loro la location dell’intervista. Pietro Masturzo, per esempio, l’abbiamo ripreso nell’atto di inquadrare i grattacieli milanesi di Gae Aulenti giustapponendovi scatti provenienti dall’altra parte del mondo per creare un cortocircuito tra presente e passato. Storicamente abbracciamo un arco di tempo che va dall’invasione dell’Afghanistan ai giorni nostri".

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