Giovedì 18 Aprile 2024

Abruzzo-Giappone solo andata. "Io, star dei manga e dei reality"

Peppe Durato, 28 anni, ha fatto fortuna a Tokyo, disegnando fumetti e diventando popolare in tv

Uno dei fumetti disegnati da Giuseppe Durato

Uno dei fumetti disegnati da Giuseppe Durato

"Itariajin". Ovvero ‘italiano’, in lingua giapponese. Giuseppe Durato, classe ’92, nato a Fossacesia, in Abruzzo, è un ragazzo che ha coronato il suo sogno: diventare un mangaka, un disegnatore di fumetti nel Paese del Sol Levante. Un traguardo che pochissimi occidentali hanno raggiunto. Sbarcato a Tokyo a soli 22 anni, nel 2015, ‘Peppe’ ha fatto diversi lavori. La svolta con un reality show, in cui ha dato quell’immagine di ‘bravo ragazzo’, timido e impacciato, in antitesi con lo stereotipo di italiano di ‘marpione’ che va per la maggiore in Giappone. Fino a Mingo – Non pensare che tutti gli italiani siano bravi con le ragazze, il manga pubblicato da noi dalla bolognese Dynit.

Durato, perché la scelta di Tokyo?

"Il Giappone è entrato nella mia vita fin da piccolo, coi cartoni animati in tv. A 16 anni, mentre frequentavo il liceo scientifico, disegnavo fumetti che piacevano ai compagni. Mi sono detto: proviamo a fare di questa passione una carriera".

Raggiungere la popolarità come mangaka è un traguardo più unico che raro…

"Ci vuole un po’ di arroganza verso se stessi, non verso gli altri. Bisogna cercare di capire se si hanno le potenzialità creative, poi alzare le ambizioni e fare di tutto per raggiungere l’obiettivo. Ho puntato subito al bersaglio grosso, che per me era fare manga in Giappone".

Il fumettista Giuseppe Durato
Il fumettista Giuseppe Durato

In Italia non vedeva sbocchi?

"In realtà non ci ho nemmeno provato, la sensazione è che le opportunità siano più scarse e che ci sia sempre bisogno di conoscere qualcuno per andare avanti. Non parlo in specifico del fumetto, dove ci sono bravissimi disegnatori che hanno sfondato, come Zerocalcare e Zuzu".

L’impatto con Tokyo?

"La vita nella capitale è carissima, e, quando ti riesce di raggiungere una stabilità economica, devi accontentarti di stanze e appartamenti piccolini. Ho insegnato italiano, ho fatto il receptionist nei ristoranti e il modello freelance per le riviste: sono un ragazzo normale, ma nel settore siamo talmente pochi che c’è sempre richiesta. Poi ho vinto un concorso per la pubblicazione seriale del mio manga su una rivista, che è la via classica del mangaka: la svolta".

Poi, il reality show Terrace House.

"Tra la vittoria del concorso di disegno e la pubblicazione passa un anno. In mezzo è arrivato il reality show: un gruppo di ragazzi ‘buttato’ in una stanza, che si raccontano, parlano delle proprie aspirazioni, un po’ più serio dei reality nostrani. Chiunque esce da lì, è una celebrità. Mi ha dato modo di essere comunque me stesso, professionale, tranquillo e anche timido, dando una versione dell’italiano molto diversa da quella che prevale in Giappone, dove siamo visti soprattutto come latin lover: cibo, donne, calcio e moda.

Anche il suo manga, ‘Mingo’, smonta gli stereotipi…

"Ha elementi autobiografici, il protagonista va a scuola di lingua in Giappone. Lì si incontrano i tipi umani più estremi: c’è l’otaku italiana vestita come una scolaretta che ti parla in giapponese, anche se sa che vieni dal suo Paese, e il compagno che pensa sempre a come rimorchiare ragazze".

I racconti sui ritmi allucinanti e gli editor pressanti sono veri?

"Sì (ride, ndr). Il sistema che vige nelle serie settimanali serve a produrre fumettisti bravi e professionali nel minor tempo possibile. Una volta diventati famosi, possono poi dedicarsi a progetti con ritmi più blandi, ma è una palestra fondamentale".

Ma quanto lavorava al giorno?

"Dovevo produrre 18 pagine a settimana. Se andava bene, la storia la ideavo in 2-3 giorni, altrimenti in 4-5 e dopo ero con l’acqua alla gola per disegnarli: mi fermavo solo per mangiare e dormivo 5 ore a notte. Senza contare lo stress del guardare lo smartphone per avere l’ok sul capitolo appena mandato".

Che cosa le manca più di casa e qual è invece il lato più positivo del Giappone?

"A Tokyo riesco a essere più produttivo: non ho distrazioni, poiché le mie amicizie qui non sono numerose e comunque tutti amano lavorare, hanno poco tempo libero. È la solitudine che crea la capitale giapponese. Di contro, la cosa che mi manca di più sono i miei amici italiani, la mia famiglia: sentirli in videochiamata non mi basta più".

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