Venerdì 19 Aprile 2024

A sangue ghiacciato: "Quei killer siamo noi"

Nicola Lagioia ricostruisce l’omicidio Varani. "Non solo cocaina, qui c’è la violenza atavica e l’incapacità di avere fiducia nell’umanità"

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Roma, 7 novembre 2020 - C’è un buco nero dentro ciascuno di noi, un pezzo di noi che pulsa nell’anima o nello stomaco o nel respiro, che tendiamo a non guardare mai, a non voler sentire perché sentirlo è doloroso e pauroso: è il nostro personale burrone verso l’abisso, il luogo di noi stessi in cui c’è il male. Il male che saremmo capaci di fare a noi, e agli altri. Il nuovo libro di Nicola Lagioia, La città dei vivi, ricostruendo la cronaca dell’omicidio del 23enne Luca Varani commesso nel 2016 a Roma da due ragazzi di buona famiglia, Manuel Foffo (28 anni) e Marco Prato (29), costringe il lettore a mettersi proprio lì: davanti al suo burrone personale. In quel delitto un movente non c’è. Altro che gli assassini di A sangue freddo, e Truman Capote. Qui il sangue è ghiacciato, è sotto zero, è inesistente: Varani viene invitato a casa di Foffo e c’è già negli assassini l’idea che dovrà essere la loro vittima. Stuprato. Poi sarà torturato, ucciso a martellate e coltellate. Prima di arrivare al massacro i due – persone normali non certo delinquenti abituali, figli di famiglie agiate, Foffo studente di giurisprudenza fuoricorso convinto di poter svoltare grazie all’invenzione di una App, Prato pr per aperitivi e ritrovi mondani – passano due giorni a farsi di vodka e cocaina.

Lagioia, colpa della droga?

"La droga è un elemento importante, senza il quale non ci sarebbe stato probabilmente l’omicidio ma non è l’unica causa. Se bastasse pippare un sacco di cocaina per trasformarsi in assassini, ci sarebbero migliaia di morti al giorno".

Colpa della violenza in sé, allora, dell’eterna tensione alla sopraffazione sul più debole. Perché secondo lei il male tende sempre a riproporsi? È una questione atavica, politica, sociale?

"La violenza è innanzitutto atavica. Lo stato di natura prevede che noi siamo violenti. Fino a un certo punto l’istinto di prevaricazione è stato una garanzia per preservare la specie. Ora non lo è più, la civiltà dovrebbe essere l’affrancamento da quello stato di natura, però è un percorso lunghissimo, ce ne allontaniamo un millimetro al secolo. L’uomo ha incarnato per tanto tempo la preda e il predatore. Della paura di essere prede ne abbiamo una memoria atavica, così come nella profondità dello stato di natura c’è il nostro istinto di violenza".

Sta a noi dominarlo.

"Nel libro il comandante dei carabinieri Donnarumma parla di “possessione” dei due assassini. Potrebbe riferirsi all’incapacità di dominare la violenza. Come il gatto che prima gioca, poi s’innervosisce poi si arrabbia: il gatto nella sua foga non è, non domina se stesso. Quando facciamo una lite violenta, magari non arriviamo alla violenza ma quella forma di possessione, tutti l’abbiamo provata".

La cultura aiuta?

"No, perché ci sono tanti tipi di cultura, esiste anche una cultura della sopraffazione, una cultura del colonialismo, la cultura non significa niente di per sé".

Ma cos’è che fa la differenza in Prato e Foffo? Prato ha anche un padre che è un intellettuale. Prato si suicida in carcere. In lui non c’è un barlume?

"Io non voglio giudicare. La letteratura dovrebbe fare domande, cercare di comprendere, non giudicare. Il giudizio vorrei lo esprimesse il lettore: il libro è sempre una partita a due tra lo scrittore e il lettore. Prato e Foffo sono due persone che faticano a distogliersi da se stessi, che si guardano continuamente allo specchio: Foffo per commiserarsi, Prato per ammirarsi. Nessuno dei due costruisce un’identità forte, perché l’identità la costruisci attraverso le differenziazioni, attraverso l’altro. Non attraverso te stesso, guardandoti allo specchio. La loro è anche la tragedia delle identità instabili".

Come alcuni personaggi di Bret Easton Ellis...

"Il Bateman di American Psycho era uno psicopatico, lucido, ben determinato, che non si sente mai in colpa, un broker negli Usa al loro apice, al centro dell’impero. Foffo e Prato no, non sanno cosa fare da grandi, sono al traino delle famiglie, stanno in una città come Roma che da 2700 anni sprofonda lentamente su se stessa. Si raccontano dominati da una forza superiore. In loro è come se il libero arbitrio, l’assunzione di responsabilità, e quindi la possibile o meno maturazione della colpa, fossero saltati. Vivono un delirio di impotenza".

Fragilità, solitudine.

"Prato è intelligente, imputa la sua attitudine manipolatoria a buchi affettivi adolescenziali mai colmati. Però non rinuncia a mettersi in scena dando agli altri l’immagine che vuole lui, non riesce a togliersi la sua corazza multicolore".

Si vive nel vuoto. Nel vuoto il male cresce.

"Il vuoto è uno dei protagonisti. Siamo tutti nipotini di Kafka, Camus, Gide".

E cosa ci salva dal male che abbiamo dentro?

"Una possibilità: chiedere aiuto agli altri. Mai Foffo o Prato mettono da parte l’orgoglio, mai abbassano la guardia. Preferiscono schiantarsi che ammettere la fragilità. Viviamo dentro a un darwinismo diffuso, secondo il quale se ci mostriamo deboli gli altri ci mangiano. Non crediamo che gli altri siano capaci di perdonarci o di comprenderci. Invece se non chiediamo aiuto ci facciamo male. E facciamo male".

 

 

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