Venerdì 19 Aprile 2024

Nella terra del sangiovese

Se è innegabile che è sinonimo di Romagna, è altrettanto vero che è uno dei vitigni più diffusi dalla Toscana fino alla Puglia

Il Sangiovese non è solo in assoluto il vino che dice Romagna, ma è – insieme al Barbera – uno dei vitigni più diffusi in Italia. Copre infatti l’11% della superficie vitata ed è allevato dalle colline romagnole fin giù alla Campania e alla Puglia. Senza tener conto che è anche l’uva dominante in Toscana ed entra negli uvaggi di oltre cento vini. Ad accreditarla fra le più nobili, basterebbe citare il Brunello di Montalcino, il Chianti Classico, il Nobile di Montepulciano e quindi il Sangiovese di Romagna. A proposito di questo ultimo dobbiamo riconoscere il grande salto qualitativo degli ultimi 10 anni; salto dovuto alla preziosa opera dei produttori romagnoli coadiuvati dal esperti enologi indigeni capitanati dal loro Presidente Pier Luigi Zama. Un requisito che rimane tra i più preziosi di un vitigno, perché permette di ottenere sia vini giovani e godibili, che di sicuro spessore, e quindi ampi e complessi, pieni ed eleganti che si esaltano anche dopo un lungo invecchiamento.

Ed è qui che la Romagna ha deciso dal 1967 di averlo nella DOP omonima con il nome del vitigno, che con le tipologie superiore, riserva e le 12 menzioni geografiche aggiuntive rappresenta in modo capillare l’espressione del Sangiovese nel territorio. Il Sangiovese è vigoroso, con germogli medi e tralci robusti, predilige terreni poco fertili (misti di argilla, calcare e sabbie gialle), climi asciutti e tendenti al caldo. Il vino (ma quale, visto l’ampio territorio di allevamento?) è di colore rosso rubino intenso, tannico, di buon corpo, armonico e gradevole, con un retrogusto che varia in rapporto agli anni. Così è amarognolo e fruttato, da giovane, per aprirsi a una gamma di profumi e a un sicuro affinamento, invecchiando. Questo spiega come possa far parte, con esiti sempre felici, di un numero imprevedibile di denominazioni (fra cui anche il Morellino di Scansano), e come il suo utilizzo tenda ancora a crescere.

Ovviamente, dire Sangiovese significa riferirsi a una famiglia con decine e decine di cloni, se si pensa che nella sola Romagna sono presenti il Sangiovese Grosso e il Piccolo, mentre il Prugnolo Gentile - dal quale si ottiene il Nobile di Montepulciano - conserva la sua origine in Toscana. Eppure, a dispetto di radici così solide e largamente documentate, recenti studi hanno individuato più di una sua parentela con vitigni del Sud, quali la Palummina di Mirabella Eclano e il Calabrese Montenuovo. Questo a riprova di quanta fortuna abbia avuto il Sangiovese, anche in territori assai lontani da quelli di origine. Ma si tratta di incertezze che fanno parte della magia e del mito che accompagna quest’uva, a partire dalle origini del nome, anch’esse piuttosto controverse. Sangiovese da Sangiovanni Valdarno? E quindi Sangiovannese, poi corrotto? O da Sangue di Giove, in quanto originario del Monte Giove, nei pressi di Sant’Arcangelo di Romagna? O ancora San Giovannina, dal nome di un’uva primaticcia per il suo germoglio a giugno? La questione è destinata a rimanere aperta. Così come le differenze tra un Sangiovese toscano, romagnolo e umbro, nonché alcune costanti comuni, quali i buoni tannini, l’elevata acidità e una precisa struttura. Il gusto, l’eleganza, la capacità d’invecchiamento, rientrano invece in quelle variabili che fanno ogni Sangiovese diverso dall’altro. Ma questo al di là di ogni differenza, conferma che il Sangiovese “esprime l’identità viticola e vinicola del nostro Paese” – come ha scritto Giacomo Tachis – e poco importa se sia riconducibile agli Etruschi o se la sua patria sia da individuare fra Toscana e Romagna. Sangiovese fa anzitutto Italia.

 

 

IN PILLOLE

Da Imola a Cesena ecco l’Albana

Il vino, si sa, ha sempre coinvolto scrittori e poeti. E’ così dai tempi di Virgilio, Orazio, Catullo, ed è così – ancora oggi – in questa Romagna dove la parlata continua a nutrire una folta schiera di poeti dialettali. Un termine che non vuole essere limitativo (Croce dice che il dialetto è la lingua madre di tutti noi, e lo è stata anche per Cristo), ma solo indicare una forma di linguaggio, che è poi quella che meglio si addice, per sentimento e spontaneità, a celebrare il vino.

Certo, occorre fantasia e non poche capacità di costruire immagini suggestive. Ma non va dimenticato che la Romagna non è solo la terra di Pascoli, ma di Fellini e di Tonino Guerra, sicché la poesia è merce a buon mercato, capace di mantenere in vita ancora oggi antiche favole, come quella intorno all’Albana. Primo fra i Bianchi a godere, fin dall’ ’87, della Docg, il vitigno è di quelli che fin dal nome accende la fantasia. Da albus (bianco) di sicuro, ma anche da Albano, nei Castelli romani, portato quassù dai legionari alla conquista della penisola. E ancora da quel biondo pallido, proprio dei capelli di Galla Placidia. Tutte ipotesi abbastanza incerte, che si fanno leggenda quando la figlia dell’imperatore Teodosio assaggia per la prima volta l’Albana. Il vino le viene offerto in una rozza brocca, che la induce ad esclamare: “Non così umilmente ti si dovrebbe bere, bensì berti in oro”. Di qui, dall’accorpamento delle ultime tre parole, sarebbe nato il nome di Bertinoro, luogo dell’episodio, e da sempre territorio di eccellenza dell’Albana. Che allora era un vino dolce, da fine pasto, col quale inzuppare magari la “brazadela”, la tipica ciambella romagnola.

Oggi l’Albana copre tutto l’arco delle varie tipologie, da secco ad amabile a passito e nella versione spumante, ed è presente in tutte le cantine del territorio, da Imola a Cesena. Dove sono ancora in tanti a ricordare un’Albana, vino del contadino, torbido, carico di profumi, ossidato e dolce fino all’eccesso. Un’immagine in netto contrasto con quella maturata a partire dagli anni Ottanta, quando il vino comincia a presentare una forte struttura, buona sapidità e tannini quantomai vivaci. Tanto da far pensare a un Rosso travestito da Bianco.

 

Sette Doc dal Trebbiano vinificato in purezza

In terra di Romagna, non va trascurato però il Trebbiano, un vitigno a bacca bianca che entra nell’uvaggio di decine di Doc. Il nome deriva da trebula, che è quello delle fattorie in epoca romana. Plinio il Vecchio descrive un Vinum Tribulanum, ovvero vino di paese o vino casereccio. E tale sarà destinato a restare a lungo. Almeno fino ai primi dell’Ottocento. Si distinguono vari tipi di Trebbiano. Oltre quello Romagnolo, il Toscano, l’Abruzzese, quello di Soave, di Modena, di Spoleto, e infine quello Giallo. Ma non è tutto. Vinificato in purezza, il vitigno dà vita a sua volta a ben sette Doc. E’ evidente che le ragioni di una tale diffusione vanno ricercate nella particolare capacità di adattamento del vitigno, anche su terreni poco vocati e in condizioni climatiche non del tutto favorevoli. Si aggiunga il suo deciso carattere neutro, con ottima vocazione spumantistica. E’ il caso del Trebbiano Giallo, che entra tra l’altro nella Doc del Cannellino di Frascati, del Cerveteri e dell’Est! Est!! Est!!! di Montefiascone.

 

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