Intervista allo chef Simone Breda

Cuciniamo con amore nel ricordo delle nonne

Chef Simone Breda

Chef Simone Breda

«Seduti al tavolo del mio ristorante o a casa, gustando un piatto tratto da una mia ricetta, vorrei solo che il piacere del piatto regalasse a chiunque un sorriso e un momento di svago. E tanto più a Natale, da sempre sinonimo di convivialità e di affetti familiari». La sfida di Simone Breda – giovane chef trentacinquenne, già carico di allori con quella stella Michelin conquistata nel 2018 con il ristorante, suo e dell’inseparabile compagna Liana Genini, “Sedicesimo Secolo” a Orzinuovi (BS) – ci racconta dell’impegno tenace e affascinante di rendere omaggio alle proprie radici, qui quelle della cucina di campagna nella bassa bresciana e bergamasca, in grado però di diventare cucina gourmet – spiega lo chef – «quando viene preparata con passione, rispetto e dedizione».

 

Che ricordi gastronomici ha del suo Natale negli anni dell’infanzia e della sua giovinezza? «Ho ricordi indelebili legati alla cucina di mia nonna e dunque del mio territorio. Di preparazioni che duravano anche giorni e dove, protagonisti, erano anzitutto gli animali da cortile: la gallina, la faraona, il cappone. Allora come oggi si mangiavano i primi cotechini da accompagnare agli spinaci e alle verze. Da quando poi, giovanissimo, ho iniziato a lavorare e dunque ero occupato per il pranzo, il Natale per me si è spostato la sera: con il grande piacere di ritrovarci tutti insieme, mangiando magari solo quel che era rimasto del banchetto appena terminato da poche ore: e cioè la gallina bollita, i ravioli accompagnati dal suo brodo e un salume che si produce nelle nostre campagne e che è il caratteristico òs de stòmech (nome che deriva dall’osso dello sterno del maiale presente nell’impasto di questo insaccato bresciano, ndr)». Natale è sinonimo di tradizione e il suo ristorante già dal nome rimanda alle antiche mura delle scuderie di un castello – del sedicesimo secolo, appunto – in cui è ospitato. Ma come va intesa correttamente la tradizione in cucina oggi? «Con gli insegnamenti del mio unico e indimenticato maestro: Gualtiero Marchesi. E cioè con il rispetto per la materia prima. La semplicità nel trattare gli ingredienti, cercando di trarre il meglio da ciascuno di loro. Il lavoro duro del cuoco, ore e ore in cucina, consiste a mio giudizio nel raggiungere la semplicità. Facendo capire in maniera comprensibile alla gente che cosa sta mangiando».

Quali piatti propone o invita a cucinare per questo Natale che gli italiani trascorreranno per lo più a casa? «Un risotto con lo Champagne celebra ovviamente un momento di festa. Ma io lo personalizzerò accompagnandolo a del midollo che mi richiama i sapori del bollito e dunque della mia terra di Lombardia, ma che al tempo stesso si aprirà anche ai nostri cugini d’Oltralpe con il richiamo a quel loro bollito che è il Pot-au-feu. Scelgo poi la faraona, consigliando di avere cura nel selezionare bene la materia prima, e che rappresenta l’aia, la civiltà contadina nel giorno di festa. Ma la renderò preziosa accompagnandola a dell’uva e a una salsa ottenuta con il nostro Lugana».

Spesso le ricette degli chef stellati sono molto difficili da realizzare. Quali consigli si sente di dare a chi invece vuole mettersi in gioco e cucinare come un grande cuoco? «Gli consiglierei di non lesinare sul tempo da dedicare in cucina. Le nostre nonne, per le feste di Natale, ci passavano giorni e la stessa preparazione del pranzo era un momento importante di aggregazione. Per me Natale più che un rito gastronomico o gourmet è una grande festa conviviale, con le sue “liturgie” che richiedono tempo e dedizione. Seguendo allora i diversi passaggi di una ricetta, anche il piatto realizzato restituirà quell’amore che gli avremo dedicato».