Sabato 20 Aprile 2024

Intervista Norbert Niederkofler

Il mio obiettivo? Portare la natura dentro il piatto

Norbert Niederkofler

Norbert Niederkofler

Camminare fra i torrenti e i sentieri dell’Alto Adige è un bel modo per capire le radici della cucina di Norbert Niederkofler. Il profumo delle erbe, il fruscio di chissà quale animale spaventato, la brina di un prato al primo sole, il rumore della pioggia su un rovo di frutti rossi: ogni percezione, ogni piccola emozione può accendere le idee di uno chef che da quasi trent’anni si è dato un programma semplice e ambizioso: «Portare la natura nel piatto». Togliamoci dalla testa che un grande cuoco di montagna viva chiuso nel suo eremo a San Cassiano, in Val Badia. Niederkofler ha visitato mezzo mondo, è stato tra gli indiani Navajo e tra gli aborigeni australiani, ha girato per un mese e mezzo in Nepal con tenda e sacco a pelo. Come una formidabile spugna ha assorbito tecniche, idee, culture. Ogni giorno trasmette rigore e passione ai suoi ragazzi nella cucina del St. Hubertus. Brigata solida e giovanissima: il più anziano ha 28 anni. Qualche ottimo allievo se n’è andato altrove a collezionare con successo stelle Michelin. Norbert di stelle ne ha tre, ovvero il massimo, da un paio d’anni.

C’è un luogo che in qualche modo racconta la sua cucina o le somiglia?

«La Valle Aurina, sotto la Vetta d’Italia, la montagna in cui sono nato. È molto protettiva, ma invita anche alla curiosità, a chiederti che cosa ci sia oltre. La mia parte protettiva è la famiglia e la curiosità non mi è mai mancata. La nostra cucina di montagna è ispirata anche dall’Asia e da tanti altri posti che mi sono rimasti dentro».

Erbe, verdure, pesci d’acqua dolce, funghi, carni. Tutto a chilometri zero?

«Chilometri zero è un’espressione che non mi interessa e non mi piace. C’è un piccolo produttore che ogni tanto ci porta 50 o 60 grammi di zafferano coltivato a 1600 metri. È in Val Venosta, a 180 chilometri da qua. Preferisco semmai un altro slogan: cultura di montagna. Se viaggi ti rendi conto che questa cultura è uguale dappertutto, nei Paesi nordici, in Oriente. La montagna ha regole ferree e precise. Devi lavorare d’estate per avere qualcosa in inverno».

Cucina di montagna ma anche di confine. Che cosa c’è di austriaco e di italiano?

«In Itala i contadini prendono contributi per il latte. In Austria li prendono per la carne. Fai meno fatica a trovare un buon vitello in Austria che da noi. Andiamo un po’ di qua e un po’ di là, la nostra cultura è austro-ungherese. Oggi la grande differenza con l’Austria è che noi guardiamo al Sud, al Mediterraneo. Questo ha dato vita a una cucina molto bella».

Dicono che nei suoi piatti ci sia ironia e divertimento, ma anche un rispetto sacrale della natura, della terra e di chi la coltiva.

«All’inizio non è stato facile far capire ai fornitori le nostre esigenze. Ci serviamo da 40 o 50 contadini, parlando con loro direttamente, senza intermediari. Col tempo ci si capisce meglio. Non lavoriamo con verdure di serra. Tra gennaio e marzo facciamo gli ordini, poi arrivano le consegne e devi imparare le giuste tecniche di stoccaggio. Raccontiamo storie col cibo. Ci sono piatti basati sulle fermentazioni, altri sulla stagionalità o sulle cotture, dalle quali abbiamo eliminato il sottovuoto. È utopistico rinunciare alla plastica, ma cerchiamo di usarla il meno possibile».

C’è un piatto di cui va fiero?

«Ce ne sono diversi, anche perché cambiamo spesso menù. Sono contento della tartare di coregone, anche perché rispetta il principio di evitare ogni spreco. Abbiamo messo il pesce sul tavolo e ci siamo detti: non ci fermiamo finché non riusciamo a usarne ogni piccola parte. Pelle, carni, testa, lische, squame».

Squame?

«Sì, sono molto fini. Vengono tolte, lavate, essiccate e fritte. Così otteniamo una parte croccante del piatto. Serve sempre il contrasto, croccante-morbido, o acido-dolce».

Lei parla spesso di digeribilità. Che cosa fa per ottenerla?

«Ci siamo avvicinati alla cucina asiatica e abbiamo rinunciato a un sacco di cose. Ad esempio non usiamo agrumi. L’acidità la puoi ottenere con l’aceto, ma è troppo forte, o col vino bianco frizzante, ma rimane un retrogusto alcolico. Perciò abbiamo lavorato molto sulle fermentazioni. Lasciano il palato pulito, vanno perfettamente d’accordo con i vini e favoriscono la digeribilità. E poi abbiamo fatto altro: la salsa soia la facciamo con le lenticchie di montagna, il miso lo otteniamo con i ceci. Certi clienti vengono a raccontarci che hanno dormito bene dopo una cena di dieci o dodici portate. È il complimento più grande che ci possano fare».

Che cos’è cambiato con la terza stella, a parte i prezzi?

«Ma no, i prezzi sono più o meno quelli. È cambiata la clientela: il primo giorno in cui si è saputo della terza stella abbiamo avuto 500 prenotazioni da tutto il mondo. Oggi i clienti europei, compresi gli italiani, sono il 25 per cento. Ma quello che ci rende orgogliosi è avere dimostrato che certi risultati si ottengono usando solo la natura che c’è attorno, senza caviale, astici, fegato grasso, rombo. Mi sono stupito che la Michelin abbia fatto una scelta del genere. Il messaggio è che puoi arrivare a tre stelle con la cucina sarda, calabrese o veneta. È un bel messaggio».

Leggo che chi prenota deve lasciare un numero di carta di credito e se cancella a meno di 72 ore è soggetto a pesanti penali. È una forma di legittima difesa, però fa discutere.

«Lo so che è un po’ un casino, ma dobbiamo proteggerci. All’estero è normale. Noi abbiamo 40 posti, siamo aperti otto mesi all’anno. È capitato di perdere anche 25mila euro in una stagione per gente che non si è presentata. Li chiami e non rispondono, oppure ti dicono che avevano avvertito la signorina. Noi non abbiamo signorine alle prenotazioni. Se uno non può venire, nessun problema, però ci avverta. Oltretutto abbiamo tanti clienti in lista d’attesa. Metta che uno di questi passi qui davanti e veda due o tre tavoli vuoti. Logico che si chieda se lo stiamo prendendo per i fondelli. Al loro posto, in un ristorante così io non prenoterei più».

Lei è uno strano tipo di chef. Discute di etica, organizza congressi, parlava di lotta agli sprechi alimentari prima che lo facesse Massimo Bottura. Che cos’è Cook the mountains?

«È un progetto nato per difendere la cucina etica e sostenibile. Per anni ci siamo chiesti come migliorare una gastronomia naturale e attenta a evitare gli sprechi. Nel 2008 è nata l’idea e nel 2013 c’è stato il primo evento, con grandi cuochi arrivati da vari continenti. È un modo di difendere le culture, i territori, il sapere dei nostri vecchi. Serve anche a dare un segnale forte alle giovani generazioni. Quando iniziammo c’era un certo scetticismo. Qualcuno mi diceva che le guide ci avrebbero massacrato».

Un cuoco che vale un viaggio?

«Molti. Niko Romito, Enrico Crippa. Anche Pino Cuttaia che in Sicilia fa col mare quello che noi facciamo con la montagna. Una cena memorabile l’ho fatta l’anno scorso in Australia da Jock Zonfrillo all’Orana di Adelaide: cucina aborigena, molto interessante».

Rimpianti?

«Ho fatto sempre quello che volevo e rifarei tutto. Sono diventato padre a 49 anni e da poco lo sono di nuovo. Ho una bellissima famiglia. Perché dovrei avere rimpianti?»

  • Il ristorante
  • Il St. Hubertus
al Rosa Alpina
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Bollicine metodo tradizionale con tipico deposito sul fondo della bottiglia. Il residuo di fermentazione conferisce un bel platino acceso. Il bouquet fruttato offre sentori di mela, pera uniti alle caratteristiche note di lievito e delicate sfumature di «crosta di pane».
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Aperto a cena (a pranzo per gruppi su prenotazione). Chiuso il martedì
  • St. Hubertus

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Hotel & spa Rosa alpina Strada Micurá de rü 20 S. Cassiano in Badia (BZ) Tel. 0471-849500
  • [email protected] - 
www.st-hubertus.it