La Trota di Rivodruti, acqua dolce stellata

Il ristorante della Sabina preappenninica è passato da trattoria di campagna a raffinato locale una stella Michelin. Sempre sotto l’egida della famiglia Serva, ormai giunta alla terza generazione, e nel nome del pesce di lago (e fiume)

di PAOLO PELLEGRINI
4 maggio 2025
La famiglia Serva, terza e quarta generazione insieme

La famiglia Serva, terza e quarta generazione insieme

Coregone, chi era costui. E carpa, tinca, pesce gatto, persico... Acqua dolce stellata: ecco ‘La Trota’ a Rivodutri, una casa di campagna con un ponticello su un torrente limpidissimo, roba da quadro impressionista. Sabina preappenninica, poche anime in un borgo antico, nei dintorni castelli e santuari, laghi e cascate. Roba da trote, insomma.

E infatti. Comincia con i pesci d’acqua dolce, un po’ più di sessant’anni fa, la storia del ristorante La Trota, oggi stella Michelin (ne ha avute anche due), allora trattoria di campagna aperta da Emilio e Rolanda Serva. "Con le trote, con il pollaio, con l’orto, con i salumi dei maiali che loro allevavano, con il vino fatto in casa, grazie alla buona clientela del Centro del Volo a Vela, venivano i Brigliadori, i Pavesi, Lunelli che bevevano volentieri il ’torbidino’, il vino di mamma", racconta Maurizio Serva, 65 anni: figlio di Emilio e Rolanda, con il fratello Sandro, 67, ai fornelli da qualche decennio alla Trota, "e sarebbe già l’ora di passare la mano", e infatti la terza generazione è già all’opera, i loro due figli Amedeo e Michele, 32 e 31, curano la sala "ma partecipano un po’ a tutto, soprattutto alle idee".

Da trattoria a stellato di campagna: funziona?

"Sì, anche molto bene, mentre tutti si lamentano noi cresciamo ogni anno, ci sono clienti che si affacciano ogni due mesi da vent’anni. E questo gratifica, 35 anni fa sembrava un suicidio proporre qui una ristorazione ’attenta’ con l’aggravante dell’acqua dolce, il pesce era per tutti lo spaghettino alle vongole. E’ il coraggio delle scelte".

E funzionano anche due fratelli chef agli stessi fornelli, per di più autodidatti?

"Funziona, senza scuole né stage in grandi ristoranti visti solo da clienti. Abbiamo dato origine a una cucina personale, fuori dagli schemi e dalle tendenze verso menu tutti uguali (che noia...), nel ritorno alla cucina ’di’ e con prodotti del luogo. Insieme va benissimo, e in più ci sono ora anche i nostri figli che partecipano a 360 gradi, questo rinsalda il concetto della famiglia che porta avanti un’idea".

Pare scontato capire chi siano stati i vostri maestri e le figure che più vi hanno influenzato...

"Beh, l’idea era proseguire il lavoro dei genitori in versione diversa, con menu degustazione in un percorso immerso nell’ambiente: ’Acqua’ parla di 11 pesci d’acqua dolce anche introvabili, tipo il carassio, parente povero della carpa, e il pesce gatto, mentre ’Terra’ propone erbe spontanee, fiori eduli, insalata. E’ offrire pezzi di territorio. Fuori dalla famiglia, quello che abbiamo frequentato di più è sicuramente Vissani".

Orizzonte ristretto, il pesce d’acqua dolce. E tanta tecnica, giusto?

"Non è così. E’ stretto, ma presenta grandi difficoltà in cucina, bisogna conoscerlo bene. E’ un’offerta unica, e per chi lo mangia non è poi così ristretto, ci vogliono idee e tecnica. L’unico riferimento alla tradizione che abbiamo in carta da 25 anni è un brodo di tinca con i capelli d’angelo, ma bisognava dargli personalità, e c’era il problema della cottura della pasta che è così sottile. Quindi, l’idea: si fa in sala, alla lampada, al tavolo. Caffettiera napoletana per il brodo, nel filtro erbe e spezia, quando bolle si capovolge, si porta la pasta al tavolo e si cuoce lì, sa di orientale. La tecnica... prima bisogna risolvere i problemi, poi pensare al piatto. Il pesce gatto ci ha fatto impazzire, con quel senso di fango, poi è arrivata l’idea: 5 giorni di marinatura in anice stellato, acqua di fiori d’arancio, scorze di agrumi, melissa, menta, aceto di Reims, finocchio selvatico. Cambia, sparisce la sensazione del fondale".

Piatti-icona?

"La zuppa di tinca, poi la carpa con una maionese di rape rosse che è quasi una bernese, la trota con il foie gras e la salsa di pesche della Sabina. E poi anche piatti non di pesce, vedi l’uovo di carciofo, un carciofo con un uovo con un tuorlo liquido dentro, tutte le ricette tipiche romane per la cottura. Un piatto lungo, ci vogliono due persone e gran parte della linea per prepararlo".

Lo chef, insieme al fratello Sandro, è ai fornelli del ristorante ‘La Trota’. Un paradiso per buongustai nel borgo di Rivodutri nella Sabina che guarda all’acqua dolce con tradizione e spirito pionieristico. Tanta storia di pesce ‘stellato’ grazie a passione e chilometro ridotto
il mitico Uovo di carciofo

Sfide che danno soddisfazione?

"Di aneddoti ne avrei duemila. C’era un signore che veniva qui da noi un giorno a settimana per 15 anni, e rifiutava sempre il pesce d’acqua dolce. Dopo 7-8 anni gli facemmo assaggiare una carpa che sembrava una ricciola, commentò “straordinario”, da allora sempre e solo i nostri pesci".