
Tappo a vite meglio del tappo di sughero. Un’eresia, per larghissima parte dell’enologia italiana. Un dato di fatto, per Graziano Prà, che lo sperimenta dal 2010.
Una storia anche oggi molto esterofila, con ben l’80% delle 400mila bottiglie prodotte destinate all’export. Bottiglie principalmente di Soave, circa 340mila, nelle sue varie declinazioni Otto, Straforte e Monte Grande (il cru aziendale). I rossi arrivano invece da otto ettari in Valpolicella, anche questi con tappo a vite (Amarone escluso).
La rinuncia al sughero è l’ultima battaglia di questo caparbio produttore veneto, tra i fondatori dei Vignaioli Indipendenti, orgoglioso della sua terra, il Soave appunto, che negli anni ha contribuito a valorizzare andando anche controcorrente, scontandosi con Consorzio e cantine sociali. “Il Soave di Graziano Prà proviene esclusivamente da vitigni autoctoni – rivendica – la Garganega e il Trebbiano di Soave, non utilizziamo Chardonnay (permesso dal disciplinare fino al 30%, ndr). Inoltre, i miei vigneti sono tutti in collina, perché è solo qui che si ottiene il massimo dalle uve, a maggior ragione da una varietà come la Garganega che su terreni ‘facili’ tende a rendere tanto, troppo, perdendo in qualità”.
A dispetto della narrazione comune legata a questa Doc, quindi, Graziano Prà intende il Soave come un grande vino, trattato come tale fin dalla vigna. E fino al tappo. A vite.