Giovedì 18 Aprile 2024

Quel buon governo che dava al vino un'alta gradazione

Il Trecento introdusse nuove tecniche enologiche. L'aggiunta di uva e mosto cotto nella botte in fermentazione aggiungeva speziatura al prodotto e maggior tasso alcolico

Caronte, un'illustrazione di Doré

Caronte, un'illustrazione di Doré

di Davide Eusebi

Stando alla Divina Commedia possiamo supporre che anche a Dante piacessero i vini che scaldavano il palato e tutto lo avvolgevano di calore solare ("E perché meno ammiri la parolaguarda il calor del sole che si fa vinogiunto a l’omor che da la vite cola", canto XXV del Purgatorio). Viceversa Dante manda il papa Martino IV a scontare i suoi peccati di gola (Purgatorio, canto XXIV) citando le anguille di Bolsena affogate nella Vernaccia (vino bianco di San Gemignano). Potremmo per metafora, assimilare il vino dantesco a Caronte, figura austera, con gli occhi fiammanti, che traghetta le anime dei dannati: insomma vini infernali nel senso buono del termine però e che accendono passioni (nel nostro caso non punite come nell’Inferno).

Premesso questo, il Trecento resta un secolo fondamentale per capire il vino, se non altro perché, proprio negli anni in cui viveva Dante, fu introdotta una tecnica ancora oggi in uso: il "Governo". Essa consisteva nell’aggiunta di uva e di mosto cotto nella botte dove era contenuto il vino da "governare", appunto, che nel frattempo cominciava a fermentare. Quindi, esauriti gli ultimi bollori, la botte veniva chiusa con il coperchio, utilizzando, per meglio sigillarla, la pece. Che caratteristiche conferiva il "Governo" a questi vini? Un frutto espanso e profondo, notevole speziatura dovuta alla fermentazione delle bucce e gradi alcolici alti causati, nota Otello Renzi, uno dei maggiori sommelier italiani, "dallo scioglimento degli zuccheri dovuto alle fermentazioni, che corrispondevano appunto a grado alcolico sostenuto". Bisogna fare questa premessa per capire che vini si bevevano al tempo di Dante. Insomma si voleva bere bene, pieno, maturo, perfino con l’aggiunta a volte di miele, ed è per questo che era in vigore più che mai il "Codice della catena" che vietava di vendemmiare uve acerbe a eccezione di quelle necessarie per preparare l’agresto, condimento da cucina. E per correggere i difetti di un vino leggero, un po’ aspro e di scarsa qualità, si ricorreva all’aggiunta di miele, spezie, o erbe come il coriandolo, la cannella e la salvia. La vendemmia? Tardiva a causa del calendario sbilanciato rispetto a oggi, sicché possiamo dire che le uve finivano in cantina non prima di fine settembre-ottobre.

Quali vini danteschi sono sopravvissuti fino a noi? Vediamone alcuni per regioni. Dal Podere La Bérne di Cervognano di Montepulciano (Siena) ci arriva una doppia versione del Nobile: la 2018, con calice avvolto in un mantello di porpora, agghindato di bacche di corbezzolo intrecciate ad aghi di pino e bagnato di sangue di pino cembro, ad evidenziarne i profumi speziati, mentre al sapore esplode il frutto di ciliegia grossa e amarena, con finale balsamico. E la 2017 ancora più evoluta, con un tannino virulento carontiano che spande la sua vena speziata di agrifoglio, agazzino e amarena pepata. Se volessimo spostarci nelle Marche, altra regione che Dante conosceva bene, potremmo citare il Sangiovese-Montepulciano 31 giorni 2018 Galiardi di Cartoceto, dove la vecchia botte respira liberando umori di carruba e sandalo, con stridore di canditi di arancio sanguinella e strepito di macis (il fiore della noce moscata) e sollievo di lavanda su corbezzolo che ci fa pensare a una sorta di infernotto. Ma i vini solari, dunque danteschi, sono soprattutto nelle isole. In Sardegna dove la cantina Quartomoro di Arborea (Oristano) produce, tra l’altro, Il Bvl Memorie di vite Bovale 2018 Isola dei Nuraghi Igt che tutto santifica, traversato com’è da correnti purpuree e con quel lungo anelito di visciola piena che scuote una terra speziata di mirto, ginepro, lentischio con visioni di pruno silvestre. Oppure, a Olbia, sorseggiando l’Ora grande Cannonau di Sardegna 2019 dell’azienda La Contralta: un tramonto rubino acceso dal sole dove la rosa rossa langue sulla sua terra e si accende poi di betulla intrisa di eucalipto. Vino profondissimo e altissimo. Tracce vive di vini danteschi anche in Sicilia, dove il Sirah-Nero d’Avola di Sergio Drago 2019 (Alcamo-Trapani) è un calice opalescente di roccia rossa liquefatta su cui Caronte naviga trascinando a sé le anime perse tra correnti di genziana, sangue di abete siberiano e pino mugo e sbocci di elicriso e alloro per alleviare le pene dei dannati che nel vino trovano consolazione.