Storie ed elezioni indimenticabili

Durante le elezioni del presidente della Repubblica può succedere un po’ di tutto, tra burle, trame, veleni, e tiratori franchi. C’è quella in volta in cui fu un’imbarazzata presidente del Senato dovette legge il voto dato a Rocco Siffredi. O quella in cui dopo 23 scrutini e innumerevoli giorni di votazioni i parlamentari elessero finalmente Giovanni Leone il giorno della vigilia di Natale. Oppure quella in cui, per qualche minuto, sembrava davvero che una donna stesse per diventare presidente. La scelta del capo dello Stato assomiglia, per molti versi, al Conclave che elegge il Papa: ma, indubbiamente, c’è molta meno sacralità.

Il bis eccezionale, quello di Giorgio Napolitano, avvenuto nella “tempesta perfetta” del 2013

di Ettore Maria Colombo

Da più parti – pezzi della politica, partiti, istituzioni italiane ed europee, persone comuni – e in modo sempre più insistente, si chiede un “bis” all’attuale Capo dello Stato, Sergio Mattarella. Ma il Presidente della Repubblica ancora oggi in carica (il suo mandato scade il 3 febbraio) ha chiarito, e in più occasioni, sia formali che informali, che non intende concederlo, richiamando precedenti illustri (le indicazioni date, in questo senso, da Antonio Segni come da Giovanni Leone, con messaggi ufficiali e motivati), ma anche dicendo anche che «sette anni possono bastare», come ha fatto parlandone con ragazzi e scolaresche cui ha confidato, in alcune occasioni, di sentirsi «stanco» perché il suo compito è stato finora «abbastanza gravoso». 

Per Mattarella, il bis renderebbe la figura del Presidente della Repubblica più simile a quella di un papa, o di un re, che a un capo di stato di una Repubblica costituzionale. Eppure la Costituzione repubblicana non ha, formalmente, vietato il bis (sul punto, tace) e un precedente, assai illustre, di rielezione di un Presidente della Repubblica c’è stato: è occorso con il bis di Giorgio Napolitano, rieletto presidente dal 2013 al 2015, quando si dimise. Ma come andarono le cose quella volta?

Come andò con la rielezione di Napolitano 

 

Bisogna tornare con la memoria alle elezioni presidenziali del 2013 che si svolsero tra il 18 e il 20 aprile di quello stesso anno. Si trattava di eleggere il 13 capo di Stato e Giorgio Napolitano prevalse, con 738 voti (quasi tutto il Parlamento) contro i 217 voti andati a Stefano Rodotà, insigne giurista, scelto e contrapposto a lui dal M5s. La scadenza naturale del primo mandato di Napolitano era fissata al 15 maggio 2013, essendo stato eletto la prima volta nel 2007, ma proprio a causa della sua rielezione, e del suo giuramento, che si tenne il 22 aprile del 2013, la fine del primo mandato venne anticipata, dando così inizio subito al suo secondo. Un record. 

 

Una concitata, drammatica, corsa al Quirinale

 

Già in vista della scadenza del mandato di Napolitano, tra alcune forze politiche (Pd, Pdl, Lega Nord, Scelta civica, Udc) nasce l’ipotesi di una sua rielezione, anche per mantenere un punto fisso nella politica italiana molto apprezzato dai cittadini e all’estero in un periodo politico che, allora, era molto turbolento. Ma Napolitano, a più riprese, ribadisce la non disponibilità al rinnovo del mandato, sia per ragioni anagrafiche, sia perché ritiene che un secondo settennato mal si confà alle caratteristiche proprie della forma repubblicana dello stato italiano, secondo quanto affermato anche dal suo predecessore, Ciampi. 

 

Lo scenario politico delle elezioni del 2013

 

Lo scenario da cui si usciva è quello delle elezioni politiche del febbraio 2013 che decretano la “non vittoria” della coalizione di centrosinistra (maggioranza assoluta alla Camera, maggioranza relativa al Senato), la robusta presenza del Pdl come forza di opposizione e il boom del M5s che diventa il dominus delle Camere, ma che rifiuta alleanze con chiunque. Il tentativo di Bersani, un incarico “esplorativo”, per formare un nuovo governo va a vuoto proprio per l’ostilità del M5s e Bersani rimette l’incarico. Resta in carica il governo guidato da Mario Monti – che si era insediato a dicembre del 2011 – e, causa scadenza termini, bisogna procedere, in ogni caso, all’elezione del nuovo Capo di Stato. 

 

Le “quirinarie” dei 5 stelle e la candidatura Marini

 

Il M5s conduce delle votazioni on-line tra i propri iscritti, battezzate quirinarie, per individuare un candidato da proporre in sede di votazione. La persona scelta è la giornalista Milena Gabanelli, ma dopo la rinuncia di quest’ultima e del secondo più votato, Gino Strada, i parlamentari del M5S convergono sul nome del terzo classificato, il giurista Stefano Rodotà, che viene proposto dai grillini come candidato comune con il Pd. 

 

Il 17 aprile, nel corso di un’assemblea molto contestata, i parlamentari e i delegati regionali del Pd decidono a maggioranza di votare, come loro candidato, l’ex presidente del Senato Franco Marini, sul quale era stato raggiunto un accordo trasversale con PdL e SC per la prima votazione, quella in cui bisogna raggiungere il quorum più alto, la maggioranza dei due terzi dei votanti. 

 

Il nome di Marini era stato proposto dal segretario del Pd Bersani al presidente del PdL Silvio Berlusconi, in una rosa che comprendeva anche l’ex presidente del Consiglio Giuliano Amato e il giudice costituzionale Mattarella. La scelta di Marini determina il dissenso esplicito dei grandi elettori vicini a Matteo Renzi, allora nel Pd, molti dei quali decidono di votare l’ex sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, alla prima e alla seconda votazione, e di altri dem che scelgono di sostenere la candidatura di Rodotà. La designazione di Marini viene duramente contestata anche da parte dei grandi elettori di SeL, guidata da Nichi Vendola, tanto da indurli ad abbandonare l’assemblea del Pd, cui partecipavano in virtù dell’alleanza elettorale nella coalizione Italia Bene Comune, e che poi ufficializzano la loro convergenza su Rodotà. 

 

La Lega Nord decide, invece, di Marini, insieme anche a Pdl, Fratelli d’Italia, Udc e parte di Sc. Ma la prima votazione non attribuisce alla candidatura di Marini i risultati sperati, anche se i voti ottenuti (521) sarebbero stati sufficienti a garantirne l’elezione dal quarto scrutinio in poi, superano di gran lunga quelli poi ottenuti da Prodi. I voti ottenuti da Marini sono anche più di quelli ottenuti in passato da tre presidenti eletti (Einaudi, Segni e Leone) e di poco inferiori a quelli ottenuti da Napolitano nel 2006. 

 

La candidatura Prodi e il “complotto dei 101”

 

Nonostante ciò, la candidatura di Marini viene ritirata. Alla seconda tornata il PD, il PdL e la Lega Nord indicano di votare scheda bianca, scelta che non viene condivisa dall’ala renziana e dall’ala più a sinistra del Pd. Fratelli d’Italia, invece, sceglie di votare il colonnello Sergio Di Caprio, meglio noto come Capitano Ultimo. 

 

Alla terza votazione anche Scelta civica indica di votare scheda bianca. Morale, è impasse totale. 

 

Dalla quarta votazione è richiesta la sola maggioranza assoluta dei componenti dell’assemblea. Il PD e SEL lanciano la candidatura dell’ex premier e fondatore dell’Ulivo, Romano Prodi, osteggiata da tutto il centrodestra, che decide di non partecipare alla votazione. La candidatura non viene condivisa neanche dal Movimento 5 Stelle, che continua a votare Rodotà, e dai montiani, che propongono invece il ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri. Prodi raggiunge alla quarta votazione solo 395 voti, evidenziando così la presenza di almeno 101 franchi tiratori all’interno dell’alleanza di centrosinistra. 

 

Peraltro, anche se quei 101 voti fossero andati a Prodi, portando i consensi per quest’ultimo a 496, non sarebbero stati sufficienti a determinarne l’elezione, con il quorum fissato a 504 voti. 

 

Prendendo atto della disfatta, la sera del 19 aprile anche Prodi ritira la propria disponibilità e, a cascata, Rosy Bindi si dimette da presidente del Pd e Bersani annuncia le dimissioni dall’incarico di segretario. Alla quinta votazione, PD e Scelta Civica annunciano di votare scheda bianca, mentre Il Popolo della Libertà e la Lega Nord decidono ancora di non prendervi parte; il Movimento 5 Stelle conferma la candidatura di Rodotà, su cui tornano a confluire i voti di SEL.

 

La processione dei capi partito da Napolitano 

 

Nella mattinata del 20 aprile, Monti, Bersani, Berlusconi e alcuni delegati regionali (tra cui i leghisti Maroni, Cota e Zaia) incontrano separatamente il presidente della Repubblica Napolitano per analizzare l’incerta situazione creatasi e trovare una soluzione per uscire dall’impasse. Nei rispettivi incontri, da parte dei vari interlocutori, viene espressa la convinzione che «nella grave situazione venutasi a determinare col succedersi delle votazioni per l’elezione del nuovo capo dello Stato, sia altamente necessario e urgente che il Parlamento in seduta comune possa dar luogo a una manifestazione di unità e coesione nazionale attraverso la rielezione dello stesso Napolitano». 

 

Viene pertanto richiesta, da un ampio schieramento parlamentare, la disponibilità di Napolitano ad essere rieletto alla presidenza della Repubblica. Il presidente uscente decide di accettare la ricandidatura e viene pertanto eletto alla sesta votazione, ricevendo consensi da parte di tutta l’assemblea, con eccezione di Movimento 5 Stelle e SEL, che mantengono la candidatura di Rodotà, e Fratelli d’Italia, che conferma la propria preferenza a De Caprio. Napolitano, con 738 voti, diventa così il primo presidente della Repubblica ad essere eletto per un secondo mandato. Ne nascerà un nuovo governo istituzionale o di “larghe intese” guidato da Enrico Letta, a giugno del 2013, che si dimetterà a febbraio del 2014, quando gli subentrerà Matteo Renzi col suo nuovo governo. 

Infine, il 14 gennaio 2015, il presidente Napolitano rassegna le sue dimissioni, preannunciate nel suo messaggio di fine d’anno e dovute al mutato quadro politico e alle difficoltà legate all’età. Alla scadenza naturale del secondo mandato (22 aprile 2020), qualora l’avesse completato, Napolitano avrebbe avuto 95 anni. Gli subentrerà, nel 2015, proprio Mattarella, cui oggi si chiede, da più parti, di dare un nuovo bis.

Quirinale: Da Cetto al Conte Mascetti, tutti i “voti burla”

di Ettore Maria Colombo

Ad ogni elezione del presidente della Repubblica, almeno negli ultimi anni, non sono mai mancati alcuni buontemponi che hanno usato questa solenne occasione per dare libero sfogo a quelli che vengono definiti “voti burla”.

Solitamente la cosa accade nei primi scrutini, quando ancora non sembra essersi definita una candidatura credibile e quindi questi voti sembrano rappresentare un’alternativa migliore alla meno fantasiosa scheda bianca. Ecco che così vengono indicati come possibile candidati a guidare la nostra cara Repubblica personaggi come come la star del cinema porno Rocco Siffredi, la conduttrice Mediaset Barbara D’Urso, la starlette Valeria Marini, l’attrice Sabrina Ferilli, la mitica Sophia Loren, gli stilisti Miuccia Prada e Santo Versace, il giornalista Michele Cucuzza, i comici di “Striscia la notizia” Ezio Greggio ed Enzo Iacchetti, calciatori come Francesco Totti e Giancarlo Antognoni, o il cantautore Francesco Guccini.

 

Il presidente della Camera di turno legge questi nomi abbozzando un sorriso e poi li passa con sufficienza agli scrutatori affinché li inseriscano nella lista dei voti dispersi. Spesso vengono indicate persone che non hanno neanche l’età minima di 50 anni per essere eletti al Quirinale.

Grande successo, riscossero qualche anno fa tra gli improbabili candidati alla presidenza il conte Mascetti e il professor Sassaroli, protagonisti del primo episodio del capolavoro cinematografico “Amici miei” di Mario Monicelli, e interpretati da Ugo Tognazzi e Adolfo Celi.

 

Ma la fantasia dei “Grandi elettori”, in qualche caso sfocia anche nel tifo calcistico ed è così che dalle urne sono stati estratti i nomi di calciatori ed allenatori come Diego Armando Maradona, Giancarlo Antognoni, Gianni Rivera o Giovanni Trapattoni.

 

Non mancano i giornalisti nella lista dei “voti burla”: tra loro Pasquale Laurito, il decano della stampa parlamentare autore della “Velina Rossa”, il direttore del Giornale Augusto Minzolini, Claudio Sabelli Fioretti, Paolo Mieli e Giuliano Ferrara.

Conclave-Quirinale, affinità elettive. La fumata bianca come un miracolo

di Lucetta Scaraffia

Mentre fervono le battaglie per l’elezione del capo dello Stato, si moltiplicano gli elenchi, sempre molto elogiativi, dei presidenti del passato: sono presentati come senza macchia anche quelli che hanno dovuto affrontare tempeste personali non indifferenti, come Leone e Cossiga. Ma questo elenco serve non tanto a costruire un identikit del nuovo presidente, che deve essere degno di tanti predecessori, in apparenza esenti da errori, quanto soprattutto per rafforzare l’idea che gli italiani, pure così litigiosi, sappiano sempre scegliere bene la carica più alta dello stato. Alla felice riuscita dell’elezione si aggiunge poi la «grazia di stato» che suggerirebbe all’eletto come comportarsi che suggerirebbe all’eletto come comportarsi.

Comunque, vuoi perché il Quirinale è stato per secoli residenza dei papi, vuoi perché vi si sono svolti quattro conclavi dal 1823 al 1846, tutto questo somiglia da vicino all’elezione di un nuovo papa. Si vorrebbe infatti che anche i papi siano stati tutti buoni, tutti bravi, alcuni – in numero sempre crescente – addirittura santi. Le controversie alimentate durante il pontificato vengono dimenticate, la chiesa celebra sé stessa – nella figura ovviamente del corpo elettorale, il collegio cardinalizio – confermando che ogni volta si è scelto bene, se non benissimo. Per di più, la «grazia di stato» qui prende addirittura il volto dello Spirito santo, certo una grande garanzia. Nessuno invece osa avanzare l’ipotesi che la buona, se non ottima stampa che sostiene entrambe le figure – il papa e il presidente italiano – è anche consigliata, o per meglio dire assicurata, dal grande potere che entrambe assommano nelle loro mani.

 

Non sono però queste le uniche somiglianze che si possono riscontrare fra l’elezione del pontefice e quella del presidente. La tentazione di minare la carriera degli avversari utilizzando i tribunali ha radici antiche: non solo nel 1559 una bolla di Paolo IV esclude di fatto dalla eleggibilità i cardinali accusati di eresia – «il che si crede fatto principalmente per privare Morone che non possa essere promosso mai al pontificato», nota un documento del tempo –, ma saranno ben due i papi rinascimentali passati direttamente dalla guida dei tribunali dell’Inquisizione, proprio quelli che decidono chi è eretico, al pontificato. Non è nuovo neppure il mercato dei voti: la corruzione incombe sui conclavi tra il XVI e il XVIII secolo, nonostante si susseguano severissime bolle di papi appena eletti, tanto che Pio X nel 1904 stabilirà che l’elezione papale resta comunque valida al fine di evitare la messa in discussione del conclave.

 

I mali sono sempre gli stessi: così la trasgressione del vincolo di segretezza sulle manovre che precedono e concludono l’elezione. Segretezza obbligata e suggellata da un giuramento per tutti i partecipanti al conclave, consigliata per motivi di convenienza ai rappresentanti politici, ai quali sembra meglio presentare l’elezione del presidente come un esercizio di perfetta e onesta democrazia.

 

Ma come sappiamo è difficile convincere tutte le persone che sono a conoscenza di segreti imbarazzanti al silenzio. Finora i più loquaci sono stati i partecipanti ai conclavi, che per secoli hanno volentieri dato alle stampe diari delle elezioni papali, tanto da suggerire ancora a Pio X nel 1904 il rafforzamento definitivo dell’obbligo del segreto. Ma anche questo non è bastato: sempre, qualche anno dopo il conclave, appaiono diari anonimi, affidati magari a giornalisti “coraggiosi” che aprono squarci non sempre luminosi sui maneggi avvenuti durante il conclave.

 

La stessa cosa succede anche per l’elezione del presidente. Accanto a una versione ufficiale, in genere rassicurante, anni dopo arrivano interviste, libri autobiografici, di protagonisti della vita politica del tempo che raccontano di romanzesche riunioni notturne, di stratagemmi sventati o orditi con successo, genere in cui eccelle senza dubbio Clemente Mastella.

 

In entrambe le situazioni, è fondamentale che la scelta appaia assolutamente indipendente, libera da influenze sovranazionali. Per la chiesa non è stato possibile per secoli, perché le grandi potenze cattoliche si riservavano il diritto di veto sulla scelta del candidato, esercitato per l’ultima volta nel 1903 a nome dell’imperatore Francesco Giuseppe contro il cardinale Mariano Rampolla del Tindaro. Ma sappiamo bene che oggi le influenze internazionali sono meno esplicite, ma altrettanto forti: sarebbe possibile, per esempio, eleggere oggi un cardinale nemico della Cina? Per il presidente, il diritto di veto o, al contrario, la spinta favorevole vengono esercitati innanzi tutto dalle dichiarazioni dei più alti esponenti dell’Unione europea, da quelli della finanza internazionale, raccolte e diffuse da testate importanti: sarebbe pensabile eleggere un presidente ostile all’Europa?

 

Ma non è finito l’elenco delle somiglianze: ne troviamo persino nel sistema elettorale, che privilegia la maggioranza di due terzi dei voti, per poi scendere a richieste meno impegnative, pur di portare a termine l’elezione. Qui scatta però la differenza: per il papa è fondamentale offrire la sicurezza di un elettorato compatto, per cui dal medioevo è stata sempre rispettata la maggioranza dei due terzi. L’unica volta che è stata trasgredita, è scoppiato lo Scisma d’Occidente, decisamente un brutto ricordo. Tanto che, dopo l’introduzione di possibilità meno rigide nel 1996, Benedetto XVI, nel motuproprio del 2007 che modifica alcune norme per il conclave, è tornato al criterio della maggioranza dei due terzi.

 

Altra fulminante somiglianza: l’assenza quasi totale di presenza femminile, non solo ovviamente – almeno nella chiesa – per quanto riguarda l’eletto, ma perfino nel corpo degli elettori e di coloro che prendono la parola sulla questione.

 

Quale conclusione trarre da questo parallelo, al tempo stesso incoraggiante e inquietante? La speranza che la somiglianza comporti anche un’azione benefica dello Spirito santo, anche se, perfino su quello, in un’intervista del 1997 il cardinale Ratzinger, con un sano realismo storico (e teologico), ha circoscritto la potenzialità di intervento: «Il ruolo dello Spirito dovrebbe essere inteso in un senso molto più elastico, non che egli detti il candidato per il quale uno debba votare. Probabilmente l’unica sicurezza che egli offre è che la cosa non possa essere totalmente rovinata. Ci sono troppi esempi di papi che evidentemente lo Spirito santo non avrebbe scelto».

Trame, veleni e franchi tiratori

di Antonella Coppari

Una presenza costante. I franchi tiratori ci sono stati in tutte le elezioni per il presidente della Repubblica. L’espressione viene dal francese franc-tireurs e indica quei combattenti liberi, che non operano seguendo gli ordini impartiti dai rispettivi comandanti per determinate azioni militari: se ne ha traccia scritta in alcuni resoconti per la prima volta nel 1870, durante la guerra franco-prussiana. Da quel momento, entra nel gergo comune per indicare quelli che, in uno schieramento, si comportano in maniera contraria alle indicazioni. E la strada che porta al Colle è lastricata dai loro ’proiettili’. Di carta, certo. Ma altrettanto dolorosi.

Come testimoniano le vittime. Prima scelta del leader democristiano, Alcide De Gasperi, nel 1948 era il repubblicano Carlo Sforza. Raccontano che fu sorpreso di notte a declamare quel discorso d’insediamento che non pronunciò mai. Fu travolto dai franchi tiratori che ritenevano fosse troppo filoatlantico, e oltre tutto massone. Al Quirinale finì il liberale Luigi Einaudi

 

Sia ben chiaro: anche l’elezione di Antonio Segni, Giovanni Gronchi, Giuseppe Saragat porta la firma dei combattenti liberi, ma impresso nella memoria dei fan di Romanzo Quirinale è il voto del 1971. «Nano maledetto non sarai mai eletto», vergato nero su bianco su una scheda, è il distico che fa sgranare gli occhi del presidente della Camera, Sandro Pertini. Il destinatario è seduto al suo fianco: Amintore Fanfani (candidato ufficiale della Dc).  Scheda nulla, d’accordo, che però annulla pure le aspirazioni quirinalizie del cavallo di razza democristiano. L’elezione più lunga della storia repubblicana – 23 scrutini necessari a raggiungere la maggioranza assoluta: per eleggere Sandro Pertini nel 1978 ne serviranno 16 – termina con l’ascesa al Colle di Giovanni Leone (51,4 per cento dei voti, la percentuale più bassa mai raggiunta). 


Poi, certo, ogni elezione fa storia a sé. Nel 1992 entrano in scena i “catafalchi”, strutture in legno con tenda di velluto pesante per il voto dei grandi elettori. Regista dell’operazione Oscar Luigi Scalfaro. Un marchingegno per facilitare la scrittura dei franchi tiratori? Il pensiero sfiorò il dc Arnaldo Forlani, che era in campo ma venne massacrato dal fuoco amico. Andreotti e Fanfani (ancora lui) si elidono a vicenda: a mettere la parola fine all’inconcludenza dei partiti che stanno per essere travolti dallo scandalo di Mani Pulite arrivano le bombe di Capaci. E viene eletto proprio Scalfaro

 

Che dire della carica dei 101? Non quella impressa sulla pellicola della Disney: non si tratta di cani dalmata bensì di 101 (c’è chi ne conta pure di più) che impallinano Romano Prodi, il candidato indicato da Bersani prima della seconda elezione di Giorgio Napolitano nel 2013. 


Pugnalatori nell’ombra sono stati chiamati. Agiscono nelle tenebre è vero, ma è una conseguenza diretta della segretezza del voto per il presidente della Repubblica previsto dall’articolo 83 della Costituzione. Ancora presto per capire se condizioneranno anche il prossimo round. Nel passato la politica ha studiato tanti stratagemmi per evitarlo, rendendo in qualche modo il voto riconoscibile durante lo spoglio in modo da far capire che gli accordi presi tra i partiti siano stati effettivamente rispettati.


Ma nell’era dei social e dei cellulari con fotocamera chi garantisce che un Grande elettore, dopo aver scritto sulla scheda il nome del proprio candidato nella corsa al Quirinale non la fotografi con il proprio smartphone, eventualmente per esibirla come “prova di fedeltà”?

Tutti i numeri dei presidenti della Repubblica

di Arnaldo Liguori

Nei suoi 75 anni di storia, la Repubblica italiana ha visto succedersi dodici presidenti della Repubblica. Il più giovane fu Francesco Cossiga, eletto a 57 anni, il più anziano Sandro Pertini, a 81 anni. L’anzianità di almeno cinquant’anni è stabilita da quella stessa Costituzione che ogni capo dello Stato giura di proteggere.

 

Nell’elezione del presidente della Repubblica converge tutta la macchina politica e istituzionale. Tutti i poteri statali hanno interessi in gioco, poiché le competenze del capo dello Stato riguardano parimenti il Governo, il Parlamento e il sistema giudiziario. È necessario, insomma, un nome che incontri il favore di molti e le resistenze di pochi.

 

Questo motivo, unito al fatto che nei primi tre scrutini è necessaria una maggioranza dei due terzi dell’assemblea, ha reso estremamente rara l’elezione del capo dello Stato nelle prime tre votazioni. È successo solo due volte: nel 1985 con l’elezione di Francesco Cossiga e nel 1999 con quella di Carlo Azeglio Ciampi.

L’elezione più difficile, invece, fu quella di Giovanni Leone, nel 1971, avvenuta dopo ben 23 scrutini. A causa di tensioni interne alla Democrazia Cristiana e di veti incrociati da parte del Partito Socialista, nell’assemblea nacque una situazione di stallo che, tra inerzia e astensioni, andò avanti per giorni. Persino alla 22esima votazione, quando i partiti si erano già accordati per il nome di Leone, l’elezione venne mancata per un voto soltanto. Il 23esimo scrutinio, l’ultimo, ebbe luogo la vigilia di Natale.

 

A cause di queste vicende, Leone ottenne la percentuale di voti più bassa della storia repubblicana: il 51,4 per cento. Per una curiosa coincidenza, l’uomo che lo proclamò capo dello Stato – all’epoca presidente della Camera – sarà destinato sette anni più tardi ad ottenere la più larga maggioranza di sempre: si tratta di Sandro Pertini, eletto nel 1978 con l’82,3 per cento dei voti.

In tutto questo, un caso a parte è rappresentato da Enrico De Nicola. Nel giugno del 1946 fu eletto capo provvisorio dello Stato dall’Assemblea costituente, al primo scrutinio, con il 74 per cento dei voti. Si dimise il 25 giugno 1946 e venne rieletto il giorno successivo con il 94 per cento dei voti nel 1947. Assunse poi il titolo di presidente della Repubblica solo dopo l’entrata in vigore della Costituzione, nel gennaio del 1948, mantenendolo solo per alcuni mesi.

 

Negli anni, tra i presidenti della Repubblica si è mantenuta una certa alternanza, sia politica, con il succedersi di personalità provenienti da destra e sinistra, sia geografica. A livello politico, si annoverano solo due eletti non appartenenti a un partito politico. Il primo è Carlo Azeglio Ciampi, banchiere ed economista che guidò un governo tecnico dal 1993 al 1994, durante una delle maggiori crisi politico-economiche della storia italiana. Il secondo è l’attuale capo dello Stato, Sergio Mattarella, che nel 2009 abbandonò il Partito democratico per preservare la sua indipendenza in quanto vicepresidente del Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa.

A livello geografico, benché soltanto sei regioni d’Italia abbiano dato i natali a un capo dello Stato, queste sono equamente divise tra Settentrione e Meridione. Sergio Mattarella è nato a Palermo e Giorgio Napolitano, è napoletano. Carlo Azeglio Ciampi era toscano e il suo predecessore, Oscar Luigi Scalfaro, era piemontese. Un’alternanza che ben si sposa con la carica che più di ogni altra rappresenta, per mandato costituzionale, l’unità d’Italia.

Una donna al Colle, la storia infinita

di Giancarlo Ricci

Nella corsa per il Colle nessuna donna è mai riuscita a sedere sulla poltrona del Palazzo del Quirinale. E diciamoci la verità, neanche ci è andata vicina.

Bisogna dire che i tempi, sicuramente stanno cambiando e quello che comunque oggi appare come uno scenario possibile, un tempo accendeva addirittura dubbi di interpretazione costituzionale.

 

Il democristiano Giuseppe Fuschini si domandò durante la Costituente: la formula “cittadino” comprende le donne, tra la platea degli italiani over 50 eleggibili? Si chiarì che sì, era possibile. Ma poi, fino al 1978, nessun nome di donna fu mai segnato nei verbali delle elezioni.

 

Nel frattempo, e siamo già negli negli anni Sessanta, le preferenze accordate all’attrice Sophia Loren furono dichiarate nulle. Venendo ai giorni nostri. nel corso delle ultime settimane sono circolati i nomi del ministro della Giustizia Marta Cartabia, della giurista Paola Severino, di Emma Bonino e Rosy Bindi come profili in corsa per il Colle.

La prima donna ad entrare in ballo durante l’elezione del Capo provvisorio dello Stato, nel 1946 fu Ottavia Penna, una delle 21 costituenti, eletta nelle liste dell’Uomo qualunque. Raccolse 32 voti mentre a spuntarla fu Enrico De Nicola con 396 preferenze.).

 

Bisogna però attendere un bel po’ di anni, fino al 1978, per trovare quattro voti registrati alla giornalista Camilla Cederna, tre ad Eleonora Moro (vedova di Aldo). In seguito, nel 1985, altri otto voti per Cederna e tre per Tina Anselmi, prima donna ministro.

 

La prima a poter contare su una vera e propria investitura politica fu invece Nilde Iotti nel 1992, sostenuta dal Pds. Detiene ancora oggi il record di voti ottenuti:256 al quarto scrutinio.

 

Si ritrovò per qualche ora in testa alla corsa, prima di cedere il passo a Oscar Luigi Scalfaro. E sempre nel 1992 Tina Anselmi strappò 18 preferenze, indicata dalle donne della Dc. Due preferenze andarono alla senatrice Aureliana Alberici, moglie all’epoca di Achille Occhetto.

 

La strada per le donne resta in salita anche sette anni dopo, nel 1999. Emma Bonino e la popolare Rosa Russo Jervolino entrano in partita, ma ne escono appena schiuse le urne: Carlo Azeglio Ciampi diventa Presidente al primo scrutinio. La radicale, però, è la prima ad avere alle spalle un comitato, “Emma for President”.

 

Nel 2006 un altro comitato, “Tina Anselmi al Quirinale”, anche stavolta senza centrare l’obiettivo. In quell’occasione, ottiene 24 voti Franca Rame, due Lidia Menapace, tre Barbara Palombelli. Altri tre a Linda Giuva, docente universitaria e moglie di Massimo D’Alema. E tre grandi elettori scelgono “Savoia Maria Gabriella”.

 

Nel 2013 si fa spazio Anna Finocchiaro. Sembra un’opzione forte, ma è Matteo Renzi a bruciare in fretta l’ipotesi dell’allora capogruppo Pd al Senato.

 

Nel 2015, invece, consensi “di bandiera” sono destinati a Luciana Castellina – 37 voti – e sempre a Bonino (25 preferenze). Tra i voti dispersi, quelli all’attrice Sabrina Ferilli. E siamo alle Presidenziali del 2022. Qualcuno dice che potrebbe essere la volta buona, ma gli ultimi segnali non fanno davvero sperare che una donna possa vincere.