Quirinale, elezioni e liturgie

Le elezioni del presidente della Repubblica hanno due anime e due volti. Da una parte ci sono le grigie sale di Montecitorio, le parole sussurrare, il legno scuro dei catafalchi elettorali e la lettura cadenzata degli illustri nomi votati dai rappresentati del Popolo. Dall’altra c’è il trionfo, le campane, i tricolori, il luccicar delle sciabole e le salve di cannoni scandite dalla cavalcata dei Corazzieri. La scelta del capo dello Stato è forse il più grande rito laico della Repubblica, in cui ogni liturgia ha uno scopo ed ogni passaggio un antico significato.

Il discorso d’insediamento, biglietto da visita del presidente

di Giancarlo Ricci

A torto o a ragione il discorso di insediamento del presidente della Repubblica è sempre stato considerato il biglietto da visita con cui il nuovo eletto si presenta agli italiani. E tutti i discorsi finora fatti sono sempre stati un po’ a cavallo tra il discorso della corona pronunciato da re e regine ed il meno altisonante (ma a volte ben più concreto) manifesto programmatico di ogni bravo politico.

 

Ragionando a ritroso, il primo a rivolgersi ai rappresentanti del popolo fu Enrico De Nicola, eletto capo provvisorio dello Stato nel 1946.

Usciti dall’incubo della guerra, De Nicola chiese ai partiti di pensare al «bene comune» e di «marciare uniti» per risollevare l’Italia.

 

Due anni dopo, e siamo quindi nel 1948, il liberale Luigi Einaudi, che nel referendum del ’46 aveva sostenuto la monarchia, disse che il trapasso verso la forma repubblicana era stato «meraviglioso» perché mostrava che l’Italia «era ormai pronta per la democrazia».

 

Nel 1955 Giovanni Gronchi, votato anche da socialisti e comunisti, confermò la sua fama di democristiano di sinistra: chiese di «far entrare nell’edificio dello Stato le masse lavoratrici» e di «contrastare il dominio delle multinazionali in Italia». L’ambasciatrice americana in Italia Claire Booth Luce lasciò scandalizzata la tribuna.

 

Il suo successore Antonio Segni, nel 1962, si presentò alle Camere come l’uomo che avrebbe tutelato la Costituzione: «Non tocca a me determinare la vita dello Stato, prerogativa che spetta al Governo e al Parlamento».

 

Nel 1964, Giuseppe Saragat, leader del piccolo partito socialdemocratico, fissò tre obiettivi di riforma in linea con quelli dei governi di centrosinistra: «casa ai lavoratori, sanità pubblica, scuola democratica».

 

La burrascosa elezione di Giovanni Leone nel 1971 (fu eletto al ventitreesimo scrutinio con i voti decisivi dei missini) si riverberò nella cerimonia di insediamento: i comunisti, guidati da Giancarlo Pajetta, rumoreggiarono per tutto il tempo e ci fu anche qualche lancio di monetine.

Leone fece l’equilibrista tra destra e sinistra: disse che la guerra aveva testimoniato «il senso del dovere dei cittadini» (concessione fatta ai missini che l’avevano votato), ma disse che il suo ruolo sarebbe stato «alimentare la nostra repubblica democratica fondata sul lavoro».

 

Sette anni dopo (siamo nel 1978), Sandro Pertini eletto pochi mesi dopo l’assassinio di Moro, fece l’elogio dello statista democristiano: «Se non fosse stato crudelmente assassinato, lui, non io, parlerebbe oggi da questo seggio a voi». Il suo discorso è passato agli annali anche per l’esortazione pacifista che il vecchio partigiano rivolse al Parlamento: «Si svuotino gli arsenali di guerra e si colmino i granai».

 

Francesco Cossiga, eletto nel 1985, si presentò invece come “uno dei tanti” che qualche anno prima avevano condotto la lotta contro il terrorismo. Di lì a cinque anni, Cossiga diventò il “picconatore” della partitocrazia, ma nel suo discorso niente lo lasciava immaginare.

 

Nel 1992, agli albori dello scandalo Mani Pulite, Oscar Luigi Scalfaro raccontò di aver chiesto aiuto a Dio e alla Madonna. E si scagliò contro la piaga del malaffare: «L’abuso di denaro pubblico è un fatto gravissimo che froda e deruba il cittadino».

 

L’impegno in difesa dell’unità nazionale di Carlo Azeglio Ciampi, fu pienamente annunciato nel suo discorso alle Camere.

 

Giorgio Napolitano, arrivato al Quirinale nel 2006 dopo la fragile vittoria del centrosinistra, fece capire subito che avrebbe lavorato per avvicinare gli schieramenti. «Considero mio dovere impegnarmi per favorire più pacati confronti tra le forze politiche». Di fronte al caos politico del 2013, dopo la bocciatura di Marini e Prodi come suoi successori, Napolitano accettò il bis ma strapazzò i partiti con il discorso di insediamento più duro della storia della Repubblica: «Ho il dovere di essere franco: se mi troverò di nuovo dinanzi a sordità come quelle contro cui ho cozzato in passato non esiterò a trarne le conseguenze dinanzi al paese».

 

Sergio Mattarella, il 3 febbraio 2015 si presenta come un «arbitro imparziale» e punta il dito contro la mafia che è un «cancro pervasivo» e contro la corruzione che «divora risorse che potrebbero essere destinate ai cittadini». E traduce il suo ruolo di garante della Costituzione che «significa garantire il diritto allo studio», «riconoscere e rendere effettivo il diritto al lavoro», «significa promuovere la cultura diffusa e la ricerca di eccellenza», «amare i nostri tesori ambientali e artistici» e «ripudiare la guerra e promuovere la pace».

Quirinale: dai catafalchi alle sciabole, un’antica liturgia

di Giancarlo Ricci

L’elezione del presidente della Repubblica è una cerimonia molto importante che segue una precisa liturgia antica, fatta di regole e riti che si svolgono all’interno e fuori dal Palazzo di Montecitorio.

 

Il giorno dell’elezione l’Aula di Montecitorio viene trasformata in un vero e proprio seggio elettorale, e qualsiasi altra attività è sospesa per accogliere i Grandi Elettori e per consentire le votazioni che per prassi sono due al giorno ma possono essere anche di più.

Ecco quali sono i principali simboli e le usanze prima e dopo la votazione.

 

I catafalchi

 

Sono le cabine elettorali montate tra il banco della presidenza e quelli del governo nell’Aula di Montecitorio. Fecero la loro prima apparizione nel 1992, durante l’elezione che avrebbe portato al Quirinale Oscar Luigi Scalfaro, per garantire la segretezza del voto.

 

I Grandi Elettori passano sotto il catafalco, scrivono il nome del candidato e poi depositano la scheda in un’urna che si chiama “insalatiera”.

 

Quest’anno però, a causa dell’emergenza Covid-19, saranno completamente diversi e al loro posto ci saranno quattro diverse cabine, una adatta ad elettori disabili, allestite ad hoc senza tendaggi per favorire l’aereazione ma capaci di mantenere lontano dagli sguardi il voto segreto. Ancora da stabilire, invece, come sarà fatta la nuova “insalatiera”. 

 

Gli applausi rivelatori

 

Lo spoglio avviene al termine di ogni votazione, il presidente della Camera legge ad una ad una le schede. In genere viene seguito nel silenzio più religioso, per consentire a chi in ogni gruppo parlamentare effettua la ‘conta’ di non commettere errori. Ma quando, secondo i calcoli, c’è la sicurezza dell’elezione nell’emiciclo si leva un applauso, che segna la “fumata bianca” e blocca per qualche istante lo spoglio delle schede. Che poi prosegue comunque fino all’ultima scheda.

 

Campane, tricolori, luccicar si sciabole e salve di cannone

 

Sono i segni caratteristici del giorno del giuramento del nuovo presidente della Repubblica. La campana di Montecitorio suona per tutto il tragitto dell’eletto dalla sua residenza romana fino alla Camera dei deputati e, poi, nel momento in cui egli pronuncia il giuramento.


In questo stesso momento il cannone del Gianicolo spara 21 salve, l’onore riservato ai capi di Stato. Al suo arrivo a Montecitorio, il presidente eletto riceve gli onori militari da un reparto di Carabinieri in alta uniforme. Da lì si dirige in Aula, ornata con 21 bandiere e drappi rossi. Qui il capo dello Stato rivolge il suo messaggio alla Nazione. 

 

Quando esce, da presidente nella pienezza dei poteri, a rendere gli onori sono i Corazzieri Guardie del presidente della Repubblica. Il nuovo Capo dello Stato ascolta l’Inno di Mameli in Piazza Montecitorio, passa in rassegna il reparto d’onore schierato con bandiera e banda. Poi sale sulla Lancia Flaminia 355 decappottabile con il presidente del Consiglio ed il segretario generale del Quirinale per andare a rendere onore all’Altare della Patria e, da lì, per raggiungere il Colle, scortato dai Corazzieri a cavallo e dai motociclisti. 

 

Giunto al Quirinale riceve gli onori militari. Poi sale allo studio alla vetrata dove ha un colloquio con il presidente uscente che consegna al nuovo Capo dello Stato il collare di Gran Croce decorato di gran Cordone, la massima onorificenza della Repubblica. A quel punto, il presidente si trasferisce nel salone dei Corazzieri per un intervento alla presenza dei vertici delle istituzioni e dai leader politici.

Il Quirinale, palazzo e residenza del Presidente della Repubblica che lo fu anche di Papi e Re

di Ettore Maria Colombo

Una leggenda “nera” vuole che il Quirinale – palazzo simbolo della Repubblica che è stato, per secoli, residenza dei Papi e per oltre settant’anni la casa dei Re d’Italia – “porti male”. Il Capo provvisorio dello Stato, Enrico De Nicola, superstizioso per natura, non voleva viverci (né abitarlo né dormirci) e risiedette sempre a palazzo Giustiniani, dove aveva l’ufficio da senatore. Anche Sandro Pertini non volle mai abitarlo, ma non per superstizione, bensì per understatement: il presidente “partigiano” tornava a dormire a casa sua insieme alla moglie, Carla Voltonina, per dare l’immagine del Presidente frugale e popolare. Tutti gli altri Presidenti ci hanno sempre vissuto, ma nessuno di loro lo ha mai amato più di tanto. 

 

La “maledizione” che i Papi, sfrattati dal loro potere temporale con la breccia di Porta Pia nel 1870, avrebbero mandato sulla testa dei Savoia, re d’Italia insediati sul Colle più alto di Roma, si sarebbe allungata a Presidenti della Repubblica.

Da palazzo dei Papi a palazzo dei Re d’Italia

 

Certo è che il Quirinale ha cambiato più volte pelle, ma è sempre restato il cuore del potere romano: guardie svizzere o corazzieri, cardinali o ministri repubblicani, da più di cinquecento anni i suoi frequentatori sono gli attori dello stesso Grande gioco che ha come posta la salute – e le redini – dello Stato. Nell’antica Roma tempio del Dio Quirino e della Dea Salute, detto Monte Cavallo per la presenza dei Dioscuri, il colle del Quirinale, nella seconda metà del Cinquecento, era un ameno luogo di campagna, dove sorgevano ville e giardini di nobili e prelati. 

 

Ai nostri giorni è una piccola città con le sue 1200 stanze e i suoi quasi mille dipendenti che, oltre a lavorare per le attività del presidente della Repubblica, devono gestire un patrimonio inestimabile composto da arazzi di grande pregio (ben 261 pezzi), mobili e dipinti, sculture e carrozza storiche. Un tesoro racchiuso in un gigantesco palazzo costruito alla fine del ’500 che ha ospitato una trentina di papi (l’ultimo fu Pio IX) rimanendo per secoli la sede dei pontefici che lì svolgevano le loro attività più “politiche” mentre il Vaticano era soltanto un luogo di culto.

 

Il primo papa a mettere gli occhi sulla proprietà fu Gregorio XIII: a sue spese fece trasformare, nel 1573, la palazzina che sorgeva nella tenuta in una grande villa il cui pezzo forte era la spettacolare scala elicoidale progettata dall’architetto Ottaviano Mascarino. Nel 1587 il suo successore, Sisto V, decise di comprare villa e giardino e ne fece la residenza estiva della corte pontificia. Di ampliamento in ampliamento (il Quirinale così come lo conosciamo è frutto dell’intervento di famosi architetti come Domenico Fontana e Carlo Maderno) il palazzo divenne il cuore del potere della Chiesa, una vera e propria cittadella del Papa e della corte. Nell’800, però, fu travolto da ben tre rivoluzioni, anche se, nella sua storia, ha accolto ben 30 Papi.

 

Per tre volte, infatti, i Papi furono sfrattati dal palazzo: da Napoleone nel 1809, da Mazzini nel 1848, da Vittorio Emanuele II nel 1870, quando Pio IX dovette lasciare la sua residenza e riparare in Vaticano. Non prima, secondo la leggenda, di aver lanciato, appunto, una terribile maledizione sul re usurpatore. Dopo l’addio del “Papa re”, il consiglio dei ministri del regno d’Italia stabilì che il Quirinale dovesse “appartenere allo Stato ed essere destinato alla residenza del Re” ma fu solo con l’arrivo al trono di Umberto I, figlio di Vittorio Emanuele III, che il Quirinale diventò una vera reggia. Durante la prima guerra mondiale conobbe una temporanea mutazione: da suntuosa reggia si trasformò in ospedale militare. 

 

Tra Monarchia e Repubblica: quanti scossoni 

 

Con l’avvento al potere di Mussolini, sotto Vittorio Emanuele III, perse gran parte della sua centralità politica e, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, conobbe nuove tribolazioni. Lasciato in fretta e furia da Vittorio Emanuele III e famiglia, in fuga verso Brindisi, il palazzo accolse nuovamente i Savoia due giorni dopo l’ingresso degli alleati a Roma, il 4 giugno 1944. 

 

Nei due anni che seguirono, il Quirinale tornò a essere parte del gioco politico, ma il potere si stava trasferendo altrove. Diventato re il 9 maggio del 1946, Umberto II abbandonò il Quirinale e l’Italia poche settimane più tardi, il 13 giugno 1946, dopo la vittoria della Repubblica nel referendum. Ma per fare del palazzo sul colle più alto di Roma il simbolo della Repubblica, fu necessario aspettare ancora due anni perché dal 1946 al 1948 il capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola, non volle salire al Quirinale per esercitare il suo mandato: a lui monarchico convinto, sarebbe sembrato di profanare un simbolo. Fu Luigi Einaudi, nel 1948, il primo presidente ad insediarsi nel famoso Palazzo, anche se pure lui si rifiutò sempre di abitarvi.

 

I presidenti della Repubblica che vi abitarono

 

Giovanni Gronchi (Dc) fu il primo presidente che visse nel palazzo seguito da Antonio Segni (Dc), Giuseppe Saragat (Psdi), Giovanni Leone (Dc), tutti con le rispettive famiglie. Sandro Pertini (Psi) e Francesco Cossiga (Dc) invece utilizzarono il Quirinale solo come ufficio, ma non vi pernottarono mai continuando a vivere rispettivamente Pertini vicino alla Fontana di Trevi, Cossiga in via Quirino Visconti. Oscar Luigi Scalfaro (Dc) vi si trasferì, anche se continuò a usare la sua abitazione nel Quartiere Aurelio. Vi si trasferirono, invece, in pianta stabile, i tre successori: Carlo Azeglio Ciampi (tecnico), Giorgio Napolitano (Pci-Pds), con le rispettive mogli, e Sergio Mattarella (Ppi) da solo. 

 

La maestosità del palazzo del Quirinale e le sale ove si svolgono le cerimonie

 

Il palazzo del Quirinale ha una superficie di 110.500 mq ed è, per superficie, il sesto palazzo nel mondo, nonché la seconda residenza di un presidente (prima è l’Ak Saray di Ankara). Si consideri che il complesso della Casa Bianca ha una superficie pari a 1/20 di quella del Quirinale. Nell’immediato secondo dopoguerra, nacque un dibattito su come utilizzare il palazzo, dato che sembrava improponibile che continuasse ad essere utilizzato come Palazzo Reale o come residenza del Presidente della Repubblica. Alcuni studiosi, tra cui Federico Zeri, avanzarono l’ipotesi di utilizzarlo come Museo Nazionale, ma quando il Quirinale venne scelto come palazzo del Presidente della Repubblica la proposta morì. 

 

Gli interventi avvenuti nel Quirinale negli ultimi decenni si sono ovviamente limitati al recupero e alla conservazione dell’immenso patrimonio artistico del palazzo. In particolare, degni di nota sono stati i restauri, avvenuti durante le presidenze Ciampi e Napolitano, che hanno interessato l’ala che dà su piazza del Quirinale e che hanno visto riaffiorare le decorazioni seicentesche deturpate dagli interventi dei primi anni del XIX secolo, opera degli architetti napoleonici (Sala Gialla e nella sala di Augusto). 

 

L’intervento più appariscente, però, è stato il restauro delle facciate, che ha riportato il palazzo all’originale colore travertino, in sostituzione dell’ocra di epoca sabauda. L’originalità del colore travertino fu attestata attraverso lo studio dei quadri dei grandi vedutisti del XVIII secolo (Pannini e Vanvitelli), nonché con indagini scientifiche dei successivi strati di intonaco.

 

Tra i luoghi degni di nota e diventati “famosi”, quando il Presidente della Repubblica riceve visite, appuntamenti istituzionali, opera nelle sue funzioni di Capo di Stato (crisi di governo, etc.) sono da ricordare lo Scalone d’onore e il salone dei Corazzieri, che – con i suoi 37 metri di lunghezza, 12 di larghezza e 19 di altezza – è il primo ambiente che si trova saliti dallo Scalone ed è dedicato alla rivista del reparto dei corazzieri in occasione delle più importanti cerimonie. Nel salone, progettato come sala del trono pontificio, hanno luogo anche molte attività del presidente della Repubblica, soprattutto pubbliche udienze.

 

Poi, la cappella Paolina, dove si tengono i concerti, molte altre, e bellissime sale (delle Logge, Gialla, degli Ambasciatori, Augustea, del Bronzino) fino alla Loggia d’Onore. È l’ambiente che si affaccia sul cortile d’onore, illuminato dai grandi finestroni posti sotto il Torrino, che ospita le conferenze stampa delle personalità politiche consultate per la formazione dei governi e dove il presidente del consiglio in pectore annuncia l’accettazione dell’incarico e talvolta rende pubblico l’elenco dei ministri.

 

Sempre di rilievo “politico”, vi è lo studio del Presidente alla Vetrata. È uno dei due studi del Presidente assieme a quello che si trova nella Palazzina del Fuga, ed è l’ufficio di alta rappresentanza, dove il presidente della Repubblica tiene gli incontri ufficiali con i Capi di Stato e con i segretari di partito durante le consultazioni per la formazione del governo. Da citare anche la Sala degli Arazzi di Lilla, dove il Presidente riceve gli ambasciatori accreditati, la Sala degli Specchi, che ospita alcune udienze del capo dello Stato e il giuramento dei giudici della Corte costituzionale, il Salone delle Feste, l’ambiente più fastoso e solenne del palazzo, dove giura il governo e si tengono i pranzi ufficiali e, infine, ovviamente, i Giardini del Quirinale, ove si tiene il tradizionale ricevimento del 2 giugno.