Chi sarà il nuovo capo dello Stato?

Intorno alle elezioni del presidente della Repubblica converge ogni forza politica e istituzionale del Paese. Tutti hanno interessi in ballo e nessuno vuole restare fuori dai giochi, perché il capo dello Stato resta in carica sette anni: è l’elemento di continuità di un sistema sempre più frammentato. Per mettere d’accordo più di mille parlamentari e delegati serve un nome che incontri il favore di molti e le resistenze di pochi: è una partita di incastri, veti, bari e franchi tiratori, ma anche di grandi compromessi e responsabilità. Aldo Moro diceva che «al Quirinale non ci si candida, ma si viene candidati». Oggi, v’è un’unica certezza: nessun esito è scontato.

La forza che move il sole e l’altre stelle

di Pierfrancesco De Robertis

L’elezione del presidente della Repubblica è diventato il conclave laico della repubblica, un rito intorno al quale tutto si muove, un evento che tiene impegnate  le forze politiche da un paio di anni prima della scadenza, e che proietta i suoi effetti per molto tempo dopo l’elezione.

 

La cattiva conduzione della partita nel 2013 produsse un risultato devastante sul segretario del Partito democratico Pierluigi Bersani, che dopo la debacle seguita ai 101 di Prodi dovette dimettersi, mentre la riuscita dell’elezione di Mattarella rinsaldò Matteo Renzi alla guida del Nazareno nel 2015. 

 

Non è però sempre stato così, e in passato la partita del Quirinale aveva sì la sua importanza ma non era l’evento in grado di cambiare il corso della politica per diversi anni come lo è adesso. La ragione di questo mutamento sta nella crisi del sistema dei partiti, e nella conseguente maggior forza che hanno assunto le istituzioni. Prima tra tutte la presidenza della Repubblica. 

 

«Quando il Parlamento parla, il presidente della Repubblica tace», è stato uno dei refrain principali della prima repubblica rimasto tuttora in vigore. Il Parlamento nei primi cinquanta anni di vita ha parlato con la voce forte dei partiti che lo componevano e davano un indirizzo e una stabilità al sistema. Quando dall’inizio della seconda repubblica i riferimenti sono mutati, ecco che il ruolo di “supplenza” del Quirinale ha assunto maggior importanza. 

 

Prima i partiti si accordavano, a volte anche al loro interno grazie al lavoro delle correnti, su chi doveva ricevere l’incarico per guidare il governo, come si stipulavano patti sicuri sui nomi dei ministri: il presidente della repubblica faceva in sostanza da notaio. Importante, ma quello è stato il suo compito. Per usare un’immagine di Mattarella, era un arbitro con giocatori che conoscevano e osservavano le regole. Poi la situazione non è stata più la stessa, e allora ecco il protagonismo assunto da alcuni inquilini del Colle che hanno finito per occupare tutti quegli spazi, ampi, che la Costituzione riserve al Capo dello Stato. C’è chi l’ha fatto in un modio chi un altro, ma nessuno, dagli anni Novanta in poi, è stato più un notaio.

Il presidente della Repubblica, un anziano signore che sta sopra tutti noi

di Gabriele Canè

Quando il nome giusto raggiunge il numero giusto di voti, tutti i grandi elettori si alzano in piedi e battono le mani, beh, è come il tripudio di piazza San Pietro se dal camino del Vaticano esce la fumata bianca. La festa laica dell’elezione del Presidente della Repubblica è sempre e comunque un momento emozionante, come l’arrivo di un nuovo Papa. Comunque la si pensi. 

 

«Hanno eletto Saragat», gridò la vicina di casa in montagna dalla finestra spalancata in una fredda giornata del dicembre 1958. Il babbo e la mamma parvero soddisfatti. Io non sapevo chi fosse quel signore o a cosa fosse stato eletto. Troppo piccolo per capire, ma abbastanza grande per ricordare in modo nitido il brivido, la festa di quel momento. 

 

Il Capo dello Stato, tanta roba. Un anziano signore che sta sopra tutti noi. O a fianco. Come Pertini chinato su quel buco maledetto dove stava morendo Alfredino, a fianco del sindaco di Bologna Zangheri sul sagrato di San Petronio per i funerali delle vittime della strage alla stazione, o sorridente sull’aereo con Bearzot e i ragazzi campioni del mondo nell’82. 

 

Come Cossiga, senza K, a duettare con Spadolini di laicismo e cattolicesimo una sera tiepida sul prato di Pian de’ Giullari, una finestra su Firenze; o Ciampi che tornò a far sventolare la bandiera tricolore di cui l’Italia progressista si vergognava, come dei suoi uomini in divisa. O come Napolitano che non doveva nemmeno sedersi a tavola, poi ha fatto addirittura il bis, dettando il menu a tutti i commensali. 

 

È probabile che non sia vero che un Presidente è il presidente di tutti, e che tutti i presidenti siano riusciti a spogliarsi del proprio Dna di origine. Ma è altrettanto certo che la funzione modella la personalità e le sue azioni. La adatta a quella poltrona, a quel ruolo. Anche nei presidenti più presidenti dei nostri, quelli eletti direttamente dal popolo, una prospettiva che si continua ad evocare per poterla poi scartare. Malauguratamente. 

 

Quando De Gaulle fece approvare la costituzione della Quinta Repubblica francese, quella attuale, il leader socialista Francois Mitterrand scrisse un pamphlet che non lasciò dubbi su come la pensasse al riguardo. Si intitolava: «Un colpo di Stato permanente». Eppure, a giudizio di tutti, si calò anni dopo nelle stanze dell’Eliseo con lo stesso piglio del generale. Perfettamente a suo agio. Come non si può non esserlo nelle stanze del Quirinale, splendidamente conservate, dove è ovattato anche il battere di tacchi dei corazzieri. Che quando arriverà fra pochi giorni il nuovo “inquilino”, magari faranno un sorriso sotto la mascherina. Perché quel signore, chissà mai, non sarà forse così anziano, o tanto diverso da quello prima.

1948, Enrico De Nicola
1948, Luigi Einaudi
1958, Giovanni Gronchi
1962, Antonio Segni
1964, Giuseppe Saragat
1972, Giovanni Leone
1978, Sandro Pertini
1985, Francesco Cossiga
1994, Oscar Luigi Scalfaro
2001, Carlo Azeglio Ciampi
2006, Giorgio Napolitano
2018, Sergio Mattarella
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Il “borsino” del Colle

di Ettore Maria Colombo

Fino a una settimana fa, volendo dare retta agli scommettitori – che in questa come in altre occasioni politiche clou come le elezioni politiche dicono sempre la loro – non c’erano dubbi: le chanches di Silvio Berlusconi di ascendere al Colle più alto aumentavano a vista d’occhio.

Insomma, si avvicina il 24 gennaio, giorno dell’avvio delle votazioni per il nuovo presidente della Repubblica, e con il passare delle ore si faceva più forte la posizione di Silvio Berlusconi, il candidato scelto – in via ufficiosa – dal centrodestra. Secondo AgiPro News, l’agenzia di stampa ufficiale di giochi e scommesse, «la possibilità di vedere il Cavaliere al Quirinale è ora in quota a 7 rispetto al 15 offerto la scorsa settimana dai betting analyst internazionali».

Le quote sul Colle degli scommettitori inglesi

Ma per il bookmaker inglese Ladbrokes rimane favorito il premier Mario Draghi, proposto a 1,50. Dietro Berlusconi, si gioca a 9 la conferma di Sergio Mattarella, con la ministra della Giustizia Marta Cartabia offerta a 11. Vale 15 volte la posta invece Pier Ferdinando Casini, mentre sale a 17 il presidente del Senato, Maria Elisabetta Casellati. Più attardato il Commissario europeo per gli affari economici, Paolo Gentiloni a 26 e l’ex premier Giuliano Amato, ultimo a 51”.

Poi, in pochi giorni, ecco la svolta: le quotazioni di Berlusconi, sull’orlo del definitivo passo indietro ad horas causa fallimento dell’operazione ‘scoiattolo’ crollano verticalmente fino a terra.

Crollano le quote del Cavaliere, sale Casellati

Del resto, Matteo Salvini ha ammesso l’esistenza di un piano B se l’operazione ‘scoiattolo’ del Cavaliere non pare porti alla sua elezione: gli indizi, ora, portano a Elisabetta Casellati, che fa un balzo in avanti nelle quote dei bookmaker internazionali, che ora la piazzano in seconda posizione alle spalle del favorito, Mario Draghi. L’attuale premier si conferma a 1,73 su Ladbrokes, con la presidente del Senato che insegue a 8 (dal 17 della scorsa settimana). Stessa quota per un secondo mandato di Sergio Mattarella, con la ministra della Giustizia Marta Cartabia che vale 11 come Berlusconi. Si sale a 13 per il vicepresidente della Corte costituzionale, Giuliano Amato; stessa quota per Pier Ferdinando Casini, con il Commissario europeo per gli affari economici Paolo Gentiloni che scivola all’ultimo posto in lavagna a 15. Queste le quote di mercato.

Va detto che se, da un lato, gli scommettitori, per quanto “sgamati”, non sempre ci azzeccano, alcuni dei nomi che girano nel “giro-scommesse”, come quello di Paolo Gentiloni, non sono mai neppure “entrati in partita” in questa gara del Colle, è anche vero, dall’altro, che i bookmakers fiutano l’aria. E che Silvio Berlusconi voglia “lanciarsi”, nella corsa al Colle, non è ormai più un segreto per nessuno, anche se manca ancora la formale ufficializzazione della sua candidatura.

Berlusconi si giocherà le sue carte? Poi è buio

Berlusconi, dunque, ma solo dal IV scrutinio in poi. Come si sa, infatti, nei primi tre scrutini, bisogna ‘gareggiare’ e misurarsi su un quorum molto alto (673 voti su 1009 Grandi elettori) e nessun candidato pensa davvero di poterlo fare.

Dal IV scrutinio in poi, invece, il quorum si abbassa di molto e, pur restando ragguardevole, scende a 505 voti, la maggioranza assoluta. Ed è qui che Berlusconi vuole misurarsi con l’impresa e sta cercando di pescare a più non posso voti sia nel gruppo Misto che nei vari gruppi centristi. Il centrodestra parte da 451 voti e il centrosinistra da 414 Grandi elettori, mentre i centristi ne hanno una cinquantina, tutti compresi, e i gruppi Misti assommano all’astronomica cifra di 113 membri. Insomma, se nessuno dei due schieramenti è in grado di potersi votare, da solo, il Capo dello Stato, l’aiutino del gruppo Misto è fondamentale.

Ma cosa potrebbe succedere se, invece, al IV scrutinio, la candidatura di Berlusconi venisse affondata dai ‘franchi tiratori’ interni ed esterni? A quel punto salirebbero le chanches di candidati ‘bipartisan’ (Amato, prediletto dalla sinistra dem, ma osteggiato dal centrodestra, e Casini, il nome in pectore di Renzi e di molti altri centristi) o, se il centrodestra avesse ancora la forza, e i numeri, per imporsi, lancerebbe uno dei nomi, tenuti per ora coperti, che Salvini e Meloni hanno in mente (Letizia Moratti, Franco Frattini, Marcella Pera), cercando di vincere la sfida da soli, o meglio agguantando i voti dei centristi e lasciando al centrosinistra la difficile decisione di accordarsi al loro nome o di astenersi dal voto. Centrosinistra che, di fronte al nome Berlusconi, medita di salire sull’Aventino, disertando il voto.

Le soluzioni possibili: Draghi o Mattarella bis

Infine, se Salvini e Letta, ma anche la Meloni – e, ovviamente, Renzi – riuscissero a mettersi d’accordo, i maggiori partiti potrebbero, alla quinta o sesta o settima votazione, convergere su Mario Draghi oppure chiedere a Mattarella il bis, anche se quest’ultima carta appare, ad oggi, più la ‘carta della disperazione’ che una vera chanche mentre la possibilità di mandare Draghi al Colle si scontra con la ‘Grande Paura’ dei peones di un vuoto, alla guida del governo, che con difficoltà sarebbe colmato e che metterebbe seriamente a rischio la durata della legislatura.

Escludendo nomi che pure sono girati per mesi (Casellati e Cartabia, in quanto donne, da un lato, Pera o Tremonti, in quanto troppo targati a destra, dall’altro lato) è difficile che vengano fuori soprese dell’ultima ora o che possano farcela i nomi che pezzi di ex M5s vogliono lanciare (Liliana Segre, Silvana Sciarra, Sabino Cassese).

Insomma, se Berlusconi fallirà l’obiettivo, come è molto probabile, non resterà, al Parlamento, che convergere su Draghi o su un Mattarella bis. E’ su questi due nomi che si concentra l’attenzione, a prescindere da cosa dicono i bookmakers…

Da De Nicola a Mattarella, le 13 votazioni, i record e i consensi

di Francesco Ghidetti

Il più votato? Sandro Pertini. Colui che prese meno voti? Giovanni Leone. Districarsi tra i numeri della Storia è impresa ardua, specie se riferita ai 12 presidenti della Repubblica che fin qui l’Italia ha avuto. Di sicuro Pertini è stato il più amato dagli italiani oltre che il più votato. La sua figura di “presidente di tutti gli italiani” è ancor’oggi rimpianta. Il suo esultare nel 1982 in Spagna. Il suo ottimismo. La sua capacità di comunicare. Tutte caratteristiche che lo elessero a primo fra i primi (come dimenticare le parole a lui dedicate da cantanti come Antonello Venditti e Toto Cotugno?).

 

Il primo fu Enrico De Nicola. Guidò il Quirinale dal 1° gennaio al 12 maggio 1948. Alta la percentuale dei consensi: il 72,8% (405 voti su 556). La caratteristica è che era di fede monarchica, mentre l’Italia era da due anni diventata, dopo il referendum del 1946, una repubblica parlamentare.

“Almanacco illustrato del Quirinale”: chi è stato il presidente migliore?

di Francesco Ghidetti

È un anno terribile il 1992. La mafia colpisce duro ammazzando prima Giovanni Falcone poi Paolo Borsellino. Il sistema dei partiti come lo avevamo conosciuto sta crollando perché il pericolo comunista è ormai consegnato alla Storia (non esistono più il Muro e l’Unione sovietica) e la magistratura sta svelando – o almeno così pare – le schifezze di quella che sarà poi ribattezzata Prima Repubblica

 

L’Aula di Montecitorio ribolle in quel maggio terribile. Si stanno svolgendo le elezioni per il nuovo capo dello Stato. A presiedere una seduta uno dei concorrenti per il Quirinale, Oscar Luigi Scalfaro. Dc di ferro, classe 1918, di Novara. Tornato sulle prime pagine dopo un lungo periodo di oblio. Il missino Teodoro Buontempo tira fuori 500 lire e le appoggia sulla testa di un democristiano. Scalfaro lo richiama e lo invita a distinguere tra una piazza e un’aula del Parlamento. Alto si alza un coro di una parte dell’emiciclo: «Imbecilli! Imbecilli!» l’insulto. Scalfaro non fa una piega: «Onorevoli colleghi, non è il caso di urlare a voce alta il proprio cognome…». Cala il silenzio, ma non è finita: un altro deputato missino chiede polemicamente a Scalfaro: «Mi indichi quale articolo del regolamento prevede l’obbligo di stare seduti». Altra gelida risposta: «Se è per questo non c’è neppure una norma che la obblighi a ragionare: è facoltativo!».

 

Sono tanti gli aneddoti più o meno veritieri attorno alla storia delle elezioni del Capo dello Stato. Aneddoti leggeri e pesanti, aneddoti che, però, descrivono epoche, paure e speranze degli italiani. Ai vari episodi, per capire ancora meglio, si uniscono i numeri. 

 

E così, in un immaginario “Almanacco illustrato del Quirinale” scopri che Sandro Pertini è stato il presidente a più larga maggioranza. Correva il 1978, altro anno terribile per il Paese (basti pensare all’assassinio di Aldo Moro e al terrorismo rosso e nero): il rappresentante socialista fu eletto al XVI scrutinio, con 832 voti su 995, la più larga maggioranza della storia repubblicana (82,3 per cento). E questa maggioranza politica fu maggioranza anche nel Paese.

 

Mai come nel suo settennato (1978-1985) i cittadini amarono così tanto il capo dello Stato. «Presidente più amato dagli italiani». «Presidente partigiano». Furono molti gli appellativi a lui riservati. Lui, che aveva fatto la Resistenza. Lui, che aveva predicato l’unità delle sinistre. Lui, che fu presente nella tragedia di Alfredino Rampi. Lui, esultante in Spagna per la vittoria dell’Italia ai campionati del mondo. Lui, con la sua pipa. Lui, protagonista della cultura pop in film, opere teatrali, romanzi e saggi, fumetti, ma soprattutto canzoni. Chi non rammenta le parole di Antonello Venditti («il Presidente dietro i vetri un po’ appannati fuma la pipa, il Presidente pensa solo agli operai, sotto la pioggia…») dell’album Sotto la pioggia. Oppure i versi di Toto Cutugno nella hit del 1983 “L’Italiano” cantata a Sanremo: «Buongiorno Italia, gli spaghetti al dente e un partigiano come presidente». Era un’Italia diversa che però aveva un obiettivo, conscio e inconscio al tempo stesso: uscire dal bianco e nero degli anni di piombo per tuffarsi nei colori dell’ottimismo (come poi sia andata è altro discorso…).


Impossibile rammentare tutti i presidenti. Da Francesco Cossiga (che, per primo e inascoltato, capì che stava per crollare un sistema), il più giovane presidente eletto: era il 1985 e lui aveva quasi 57 anni (il più anziano è stato Giorgio Napolitano al secondo mandato con 87 anni). A colui – in questo simile a Pertini – che maggiormente infuse un nuovo orgoglio di essere italiani senza tentazioni sovraniste: il livornese Carlo Azeglio Ciampi. Si adoperò perché il tricolore tornasse nelle case degli italiani non come mero orpello, ma come base fondante di una comunità. Difese e promulgò la memoria del Risorgimento come epoca luminosa della nostra storia e non sepolcro patriottico ammuffito. “I nomi del Risorgimento sono vivi, sono dentro di noi, ci appartengono”, scandì in più di un’occasione. Fu uno dei tre capi dello Stato (con lui Enrico De Nicola e Francesco Cossiga) eletto al primo scrutinio e con ben 33 voti in più del quorum richiesto.

 

L’esatto contrario di Giovanni Leone che invece eletto nel 1971, con il minor numero di consensi: il 51,4 per cento (518 voti su 1008). La sua nomina fu complessa e lunga, la più lunga: ci vollero 23 scrutini, i lavori parlamentari durarono quasi 25 giorni. Altra questione: ma da dove vengono i primi tredici cittadini d’Italia? Guida la Campania (De Nicola, Leone, Napolitano) assieme al Piemonte (Einaudi, Saragat, Scalfaro); quindi la Sardegna (Segni, Cossiga) e la Toscana (Gronchi, Ciampi); la Liguria (Pertini); la Sicilia (Mattarella).