Giovedì 25 Aprile 2024

Trump-Twitter: ma chi controlla la verità?

Dagli anni ’70 ai social network aperti a tutti. La comunicazione sul web è considerata bene comune, la proprietà dei mezzi digitali però è di pochi

Donald Trump, 74 anni il prossimo 14 giugno

Donald Trump, 74 anni il prossimo 14 giugno

Roma, 6 giugno 2020 - La guerra è sempre una guerra anche di parole, anzi forse prima e soprattutto di parole. È sempre stato così, fin dai tempi antichi. L’imposizione di una lingua ufficiale, l’assunzione di termini, i cambi di vocabolario sono stati importanti quanto se non più della acquisizione di territori e invasioni di eserciti. È una faccenda di autorità. La centralità della comunicazione nel farsi e disfarsi dei poteri del mondo non è una scoperta recente. Per capire la ’guerra’ che ha investito anche il mondo dei social in questi giorni, dallo 'strappo' tra Twitter e il presidente Trump fino alle proteste dei dipendenti di Facebook contro il fondatore e l’affacciarsi di nuovi player, occorre dunque avere una prospettiva ampia, pena non comprendere nulla.

La parola ‘comunicazione’ è stato un mantra per tutti gli anni ’80. Corsi di comunicazione ovunque, nascita nelle università di facoltà di fino allora sconosciute ’Scienze della comunicazione’, ottime per rubar studenti alle ’vetuste’ facoltà umanistiche. Semiologi alla Eco diventano star, discettanti su tutto, dai fumetti alla medievistica. Se pur avevi solo una botteguccia di gelateria ogni ente di servizio alle aziende o consulente ti diceva che il problema è la ’comunicazione’.

La parola magica e i suoi maghi, e il vocabolario connesso, invadono la società, sognando un mondo dove non esista la verità (Eco, ad esempio era contrario all’uso della parola verità, poiché laureato su Tommaso d’Aquino sapeva che doveva abolirla per avere qualche chance). Si afferma una presunta libertà che persegue i suoi scopi con ’strategie di comunicazione’. Il sogno di un mondo senza autorità fondata sulla responsabilità della verità, quindi senza editori, sembrava prender corpo. Non a caso ne fanno le spese i giornali. La strategia di comunicazione diviene protagonista del pensiero, e serve per vendere una bicicletta o per costruire una identità, commerciale o politica. Intanto negli anni ’70, gli Usa aiutarono il sorgere di compagnie hi-tech molto forti (Microsoft 1975, Apple 1976) conquistando il mondo della Rete. Poi arrivano i social (pioniere SexDegrees nato nel ’96 e defunto qualche anno dopo, poi MySpace 2003 e poi Facebook 2004 Twitter 2006 etc).

La Cina ribatte creando i suoi colossi e spazi. L’idea che si possa comunicare rapidamente è affascinante. La comunicazione diviene ‘bene comune’ anche se i suoi strumenti sono controllati da pochi. Avviene in modo smart, Zuckerberg si presenta in t-shirt, pur se questi colossi prosperanti in epoca di globalizzazione hanno strutture tuttaltro che leggere, come illustra Gianni Riotta nel suo ’Il web ci rende liberi?’. Ma oggi l’autorità e con essa il tema della verità, inevitabile in ogni dinamica comunicativa, torna prepotente in scena. Chi ha l’autorità per pronunciarsi su certi temi? Chi difende la privacy e da chi? Chi decide che cosa è fake o politicamente scorretto? La comunicazione si fonda sull’autorità della verità. Oppure sul potere. Oggi lo stiamo riscoprendo. Duramente.